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Gustavo Zagrebelsky
Le parole del futuro
29 Marzo 2017
Le idee
«I greci avevano “paidéia”, i romani “pietas”, gli illuministi “diritti”: è sempre il linguaggio la culla del cambiamento. Nel linguaggio resiste la culla del cambiamento e l’antidoto a Babele.
«I greci avevano “paidéia”, i romani “pietas”, gli illuministi “diritti”: è sempre il linguaggio la culla del cambiamento. Nel linguaggio resiste la culla del cambiamento e l’antidoto a Babele. Da “armonia” a “silenzio” così guariremo da Babele».

la Repubblica, 29 marzo 2017 (c.m.c.)

Le parole possono essere tante cose: parole di verità o di menzogna; parole che accendono o che spengono; di assoluzione e di condanna; parole che vivificano o che uccidono; che aprono o che chiudono; lievi come carezze o pesanti come pietre. Mai come in questo tempo l’umanità ha parlato: chiacchiere, giornali, radio e televisione, cellulari, web. La parola è il mezzo non unico ma certamente principale della comunicazione. Che cosa dobbiamo intendere per comunicazione? Non voglio fare dell’etimologia, se non per sottolineare che essa ha significato il passaggio da uno a un altro non di parole, ma di cose, per farle diventare “comuni”. Comunicazione significa fare comunanza di oggetti, proprietà, pensieri, informazioni, esperienze, sentimenti, conoscenze del più vario genere.

Con le parole non solo si comunica, ma anche ci si scomunica; non solo si passano verità, ma anche inganni; non solo ci si gratifica l’uno con l’altro, ma ci si denigra anche. Munifico è colui che è prodigo di doni, doni che possono essere buoni e cattivi, come i doni avvelenati. Ma il munus che sta nella comunicazione è anche compito, responsabilità. La società è un insieme di munera reciproci. A tutto questo servono le parole, quando non sono vuote parole. Teniamo dunque ben fermo questo concetto: le parole della comunicazione sono parole di reciprocità, reciprocità di doni e di responsabilità.

Ogni società in ogni sua epoca ha le sue parole-chiave. Nella Grecia classica era paidéia, l’educazione dell’uomo bello e buono a cui si collegavano il coraggio, l’abilità ginnica, la formazione filosofica e musicale, ecc. Nella Roma repubblicana la parola era, per l’appunto, res publica, cosa di tutti sostenuta dal consenso di tutti e finalizzata al bene di tutti. Nella Roma imperiale, era invece la secondo l’ideale che Virgilio associò alla virtù del “pio Enea” per alludere, adulandolo, a Ottaviano Augusto.

Nel Medio Evo, la vita si svolgeva intorno alla salus animarum, alla caccia agli eretici e alla crociata contro gli infedeli. Nella società feudale, le parole erano fedeltà e onore: fedeltà nei confronti del principe cui si doveva riconoscenza per i benefici ricevuti e onore nei confronti del ceto cui si apparteneva. Il Rinascimento scoprì la humanitas.

Gli uomini delle rivoluzioni promosse dai lumi della ragione, alla fine del ’700, scaldavano i propri cuori quando nominavano la umanità, con i suoi diritti imprescrittibili. L’epoca dei “risorgimenti” dell’Ottocento (tra cui il nostro Risorgimento) si è nutrita a sazietà della parola Nazione e della sua potenza. Poi, a missione compiuta, furono il progresso e la modernità, le parole mitiche su cui tutte le altre si orientavano, come aghi magnetici attratti da quest’unico polo.

Veniamo alle parole che usiamo oggi. Si può dire che siano “comunicative”? Se teniamo presente quanto detto sopra circa la doppia valenza della comunicazione: il dono scambievole e la responsabilità reciproca, altrettanto certamente dobbiamo riconoscere che le nostre parole non sono “comunicative”. Al contrario: sono dissociative.

Sono parole circondate da un ideologico alone positivo. Chi direbbe male di innovazione, riforme, sviluppo, crescita, competitività, eccellenza, meritocrazia, successo, e, sopra ogni cosa, business? Ma, ognuna di queste parole ha il suo contrario che condanna all’emarginazione, all’irrilevanza, al rifiuto, all’umiliazione, all’oblio. Per non soccombere tu, deve soccombere qualcun altro. È la legge della concorrenza elevata alla massima potenza. Si vince o si perde la partita della vita rispetto a che cosa? Nelle società competitive si vince o si perde per desiderio di ricchezza, di potere e di fama: tre beni distinti ma collegati che, anzi, si alimentano l’uno con l’altro come una trinità.

La ricchezza, il potere e la fama non sono affatto mali in sé. Ma essi si danno spinte reciproche e contribuiscono, ciascuno per la sua parte, alla smodatezza, all’eccesso, alla sregolatezza. Sulla ricchezza e sul potere così tante teorie, dottrine, ideologie politiche sono state prodotte che non se ne può nemmeno fare cenno. La fama, invece, è rimasta piuttosto in ombra... La si relega tra le innocenti, magari ridicole, aspirazioni degli animi vanesi.

Eppure, anch’essa è oggetto d’impetuosi desideri e pulsioni e, come la proprietà e il potere, modella potentemente le relazioni sociali. Essa, infatti, distribuisce biasimo e lode, alza e abbassa nella considerazione sociale. Vale per la fama la stessa cosa che vale per la ricchezza e per il potere: appropriazione dalla parte degli uni comporta privazioni dalla parte degli altri.

Il veleno non sono in sé i beni materiali, il potere e la fama. Il veleno è l’ingordigia. L’ingordigia è mossa dalla legge dell’auto-accrescimento progressivo. Non può arrestarsi da sé perché contraddirebbe la sua natura. Più si ha, più si arraffa. Denaro, potere e fama sono forze travolgenti che crescono crescendo e, alla fine, non lasciano scampo. All’inizio, si opera per possederli. Alla fine, se ne è posseduti.

Eppure, di una parola da fuori, di una parola eccentrica, c’è bisogno; c’è straordinariamente bisogno nel tempo in cui il darsi da fare stando dentro accresce il disagio. Quella che non c’è non è la parola che mette ogni cosa a posto, rincuorante e incoraggiante; la parola pacificatrice e illuminante; la parola sulla quale si possano raccogliere le forze con unità d’intenti; la parola che sia segno d’orientamento per uscire dal labirinto in cui ci troviamo che, eufemisticamente, possiamo chiamare il malessere della nostra civiltà. Il silenzio.

Nel tempo del frastuono, le energie interiori necessarie contro imbonitori e inquisitori le troviamo facendo silenzio. Solo in silenzio possiamo pensare noi stessi per noi stessi, condizione per poterci poi pensare consapevolmente in relazione agli altri. Il conosci te stesso che campeggiava sul frontone del tempio di Apollo è la formula pregnante della scomposizione-ricomposizione del sé. È il leopardiano «infinito silenzio», dove dolce è «il naufragar». Tutto questo, al di là delle fumisterie filosofiche e degli incantamenti mistici, può esistere. Basta saperlo cogliere.

La solitudine. Solitudine e silenzio si richiamano reciprocamente. L’isolarsi, anche stando in mezzo alla compagnia di altri, è un’esperienza che tutti abbiamo fatto, quando siamo presi da un pensiero. Sembra talora indifferenza o aristocratica sufficienza, onde il richiamo “democratico”: ritorna tra noi. La solitudine è una ricerca d’equilibrio tra questi due opposti richiami, ugualmente vitali: essere tra sé e sé ed “essere tra noi”. Essere solo tra noi, significa perdere se stessi; essere solo se stessi è paranoia, presunzione e narcisismo, i disturbi della psiche che Dostoevskij, più di centocinquanta anni fa, ha descritto ne Il sosia: un racconto che, se letto, con gli occhi dei frequentatori odierni dei social network, ha il carattere della profezia.

Anche per la solitudine, si deve ripetere ciò che s’è detto per il silenzio. Non è l’obiettivo finale. Se tale fosse, sarebbe desolazione mortifera. È il punto iniziale da cui può scaturire una vita sociale feconda.

Il buio. Se è condizione d’arrivo, il buio evoca l’idea del vuoto, della sventura, delle tenebre. Ma, la luce riluce soltanto a partire dal buio. Lux lucet in tenebris. Se dunque la luce è bene, lo è anche allo stesso modo il buio che rende possibile la luce. Che si possa vedere solo nel rapporto tra luce e non luce, tra luce e ombre, lo dice splendidamente il mito platonico della caverna.

Che sia qui la parola che non c’è ma che cerchiamo, nel silenzio, nella solitudine e nell’ombra delle promesse di libertà? Che si nasconda qui la parola con la quale possiamo vedere i guasti del mondo, resistere alle parole di Babele, aprirci alle incognite della libertà, cercare uscite d’emergenza?

Che la parola che racchiude un tale programma di affrancamento possa essere “armonia”? L’armonia è la giusta collocazione reciproca tra parti diverse. In che cosa consista questa giustezza non sapremmo dire facilmente in positivo. Certamente, però, sappiamo che non ha nulla a che fare con la babele che dovremmo avere davanti agli occhi.

*Il testo di Gustavo Zagrebelsky che qui pubblichiamo è una sintesi della sua lectio alla Biennale Democrazia, la manifestazione culturale da lui presieduta e intitolata in questa edizione “Uscite di emergenza”, in programma da oggi a domenica 2 aprile.

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