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Guido Crainz
La rinascita. Le tendopoli dove la democrazia dal basso evitò la “Caporetto civile”
7 Maggio 2016
Post 2012
«Un impegno corale, a cui architetti e urbanisti contribuirono con intelligenza e passione. A molti aspetti l’esperienza del Friuli rinvia, e su tutti è necessario riflettere». La Repubblica, 7 maggio 2016 (c.m.c.)

«Un impegno corale, a cui architetti e urbanisti contribuirono con intelligenza e passione. A molti aspetti l’esperienza del Friuli rinvia, e su tutti è necessario riflettere». La Repubblica, 7 maggio 2016 (c.m.c.)

Per molte ragioni è importante riflettere su tutti gli aspetti dell’esperienza del Friuli, su tutti gli elementi che la resero possibile: 75mila case danneggiate e 18mila distrutte nel 1976, 74mila riparate e più di 16mila ricostruite dieci anni dopo.

È importante farlo in un Paese troppo spesso dimentico di quel che ha saputo fare e incapace di trarre insegnamenti dal passato. Molti elementi concorsero allora, in primo luogo un appassionato protagonismo collettivo — ricco anche di elementi conflittuali — e una altrettanto felice capacità di ascolto delle istituzioni: con leggi nazionali e regionali che, sulla scia del miglior riformismo degli anni 70, decentrarono le decisioni e trovarono amministratori locali all’altezza dei propri compiti.

Era l’Italia del 1976, percorsa da ansie diffuse di partecipazione, e in essa prese corpo una “democrazia dal basso” — nelle assemblee delle tendopoli e nel coordinamento dei paesi terremotati — di cui ho viva memoria: un clima immaginabile solo in quella Italia, percorsa da una diffusa speranza di rinnovamento radicale (di lì a poco le devastazioni del terrorismo avrebbero stravolto il quadro, ma forse non era inevitabile che le cose andassero così).

Le cronache dell’epoca ci riconsegnano bene quell’“aura”: “i terremotati hanno deciso di passare all’attacco — scriveva a esempio a luglio Giuliano Zincone — hanno eletto delegati di tendopoli, organizzano assemblee e a giorni faranno una grande manifestazione a Trieste, sede della Regione, per evitare che il terremoto si trasformi definitivamente in una Caporetto civile”. Il “rischio Caporetto” non c’era stato in realtà a maggio, nella risposta immediata delle popolazioni colpite e del Paese. Di tutto il Paese, in una mobilitazione che coinvolse differenti generazioni e diversissimi vissuti: dai giovani volontari, non immemori di ansie sessantottine, alle associazioni degli alpini, dai boy scout ai molti friulani che ritornarono nella loro terra, anche dall’estero, per “dare una mano”.

Si affacciò per un attimo a settembre, quel rischio, quando una seconda ondata di scosse portò un colpo mortale alle illusioni di una ricostruzione immediata, che pure erano ampiamente circolate: l’esodo forzato verso le zone più sicure dei litorali o altrove — avvicinandosi ormai l’inverno — sembrò segnare la fine di una stagione di speranze. Così non fu, ed entra qui in campo anche il secondo aspetto decisivo di quell’esperienza: la capacità di ascolto delle istituzioni e la scelta di affidare le decisioni alle amministrazioni locali (amministrazioni che nel loro operare avrebbero mostrato quanto quella scelta fosse fondata).

Assieme al ruolo svolto dal commissario straordinario Giuseppe Zamberletti: nacque allora la nostra Protezione civile. Sono i mesi in cui nasce anche il primo “governo di unità nazionale”, o “delle astensioni”, guidato da Andreotti, nell’incerto scenario aperto dalle elezioni del 1976 (di poco successive al sisma): con la Dc “costretta” a coinvolgere in qualche modo il Pci ma altrettanto “costretta” (per propria vocazione e per persistenti veti internazionali) a tenerlo sull’uscio.

Quel clima favorì talora un “consociativismo” portato a prevalere sui cittadini, in Friuli accadde esattamente il contrario: favorì decentramento e partecipazione. E in tutto questo si inserì il ruolo svolto dalla Chiesa friulana — guidata da un vescovo di straordinaria levatura e umanità, Alfredo Battisti — che trovava radici nella sua “vicinanza storica” alla popolazione (una vicinanza non priva di suggestioni “autonomistiche”): “prima le fabbriche e le case, e poi le Chiese”, si disse, e da più parti venne dato impulso anche alla nascita dell’Università di Udine.

Un impegno corale, dunque, cui architetti e urbanisti contribuirono con intelligenza e passione, e favorito in qualche modo anche dalla natura degli insediamenti colpiti: il sisma riguardò infatti una estesa rete di centri relativamente piccoli (o comunque organizzati in borghi, come Gemona), e le tendopoli ricostruirono subito i tessuti sociali e gli stessi rapporti con gli amministratori.

Sono più chiare allora le molte radici dell’esperienza friulana, e sono possibili anche alcune riflessioni sul diverso calvario dell’Abruzzo colpito dal sisma del 2009. Colpito sin nel suo cuore, L’Aquila: con la popolazione dispersa spesso nelle differenti zone della Regione, e “isolata” al tempo stesso da un centralismo che ha tentato di impedirle in tutti i modi di partecipare alle decisioni.E con una berlusconiana “politica del fare” incentrata su insediamenti inventati ex novo (l’esatto contrario di quel che rese vincente l’esperienza friulana), con conseguenze pesanti per il futuro di una città e di una regione. A molti aspetti dunque l’esperienza del Friuli rinvia, e su tutti è necessario riflettere.

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