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Gabriele Romagnoli
Chi si arrende diventa complice delle bugie
15 Febbraio 2016
2015-La guerra diffusa
Una testimonianza che conalida le molte verità che sono già emerse, quelle che non emergeranno mai e i vizi di quella del «potere pseudo-democratico» di cui inostri governanti "democratici" sono complici.
Una testimonianza che conalida le molte verità che sono già emerse, quelle che non emergeranno mai e i vizi di quella del «potere pseudo-democratico» di cui inostri governanti "democratici" sono complici.

La Repubblica, 15 febbraio 2016

Di certo c’è solo che è morto. Quel che il giornalista Tommaso Besozzi scrisse a proposito della fine del bandito Giuliano, sbugiardando la versione ufficiale, si può scrivere oggi per Giulio Regeni. Possiamo purtroppo aggiungere altre due certezze. La seconda è che le responsabilità vanno cercate negli stessi apparati di polizia che indagano o fingono di indagare o sviano le indagini sull’accaduto. La terza è che questa verità, pur sotto gli occhi, non sarà mai su carta, nero su bianco, conclamata e capace di conseguenze agli opportuni livelli, dai garage dove avvengono le torture alle terrazze da cui si vede il Nilo. Fa male quanto le altre considerazioni ammettere che in questi casi si diffonde una sorta di fatalismo di Stato, una ragion deviante che accompagna le traiettorie di un’inchiesta, curva dopo curva, verso il vicolo cieco, un muro di mattoni su cui sta scritto a spray: dimenticare conviene. È già accaduto altre volte, accadrà ancora, anche questo sappiamo.

Lo schema è sempre lo stesso. Esiste un potere che si fonda su procedure pseudo-democratiche e per questo si guadagna il riconoscimento da parte della comunità internazionale, dopo che i rapporti degli ispettori Ocse sulle tornate elettorali sono stati cestinati. Il fondamento di questo rispetto non si basa su una affinità di valori e intenti, ma su una varietà di opportunismi economici e politici. Sono spesso in ballo accordi finanziari di grande rilievo. E disturbare il manovratore mettendone in dubbio la legittimità o la legalità significherebbe riaprire le porte al caos, alla sua sostituzione con figure più pericolose per il controllo della situazione in aree a rischio. La si definisce strategia del male minore. Ora, andate a spiegare quanto minore sia questo male alla vedova di Alexander Litvinenko e fatele accettare l’idea che non esistono prove in grado di collegare l’avvelenamento al polonio di suo marito allo zar russo che l’aveva preso di mira. Andate dai genitori di Giulio Regeni a spiegare quanto minore sia il male di rimettere a un faraone e alla sua corte il peccato di aver massacrato il loro figlio.

È sempre lo stesso schema: l’abbiamo già visto e lo vedremo ancora. Quel potere pseudo-democratico, con cui però si viene a patti, nazionalizza le televisioni, sottomette i giornali e controlla i corrispondenti stranieri. Che in Egitto funzioni così l’ho sperimentato di persona lavorandoci per un anno ai “dorati” tempi di Mubarak. I colleghi locali mi spiegarono le regole di sopravvivenza. Per superficialità ne violai una: «Mai scrivere Mubarak, la censura è un computer, inserisce la funzione cerca parola, tu non usare il nome e sei a posto». Lo feci e immediatamente ne pagai le conseguenze.
Definisco “dorati” quei tempi perché invece di farmi sparire mi diedero 24 ore per lasciare il Paese. Poi l’intervento di un diplomatico e della direzione di questo giornale mi valse una proroga di sei mesi. Fui convocato dall’addetto alla stampa straniera in un ufficio vuoto, il genere più temibile. Sulla scrivania, una sola carpetta. Conteneva i fax dall’Italia con tutti i miei articoli dall’Egitto tradotti in arabo. Ogni “spiacevolezza” era stata sottolineata. Teatralmente il funzionario le rilesse una dopo l’altra stracciando le pagine. Lasciò intatta solo quella su Mubarak e la rimise nella carpetta. Aggiunse: «La prossima volta non ci rivedremo». Giulio Regeni non ha avuto una seconda occasione. Chiunque creda che quel che scriveva non fosse letto da occhi attenti o che lo pseudonimo valesse a proteggerlo, sogna e non si è ancora svegliato.
Ci sono molte buone ragioni per cui cedere al fatalismo e ammettere che, sì: dimenticare conviene. Ce n’è una per non farlo: noi siamo vivi e Giulio è morto. Glielo dobbiamo perché siamo ancora qui, con gli occhi che vedono, la testa che ragiona e il cuore che batte. Siamo qui a fare 2+2, mica ci vuole un algoritmo per certe conclusioni. Siamo qui, ognuno con i suoi mezzi: chi un cartello con cui protestare, chi un computer acceso, chi una scrivania vuota con sopra il telefono collegato ai numeri giusti. Rassegnarsi all’ineluttabilità della menzogna è diventarne complici morali. In un mondo libero chi si piega per convenienza è morto molto, ma molto prima di Giulio Regeni.
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