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Raimondo Bultrini
Stragi Is: Giacarta
15 Gennaio 2016
2015-La guerra diffusa
La cronaca di Raimondo Bultrini e Emanuele Giordana, le analisi dello scrittore Jason Burke e del giornalista Giordana.

La cronaca di Raimondo Bultrini e Emanuele Giordana, le analisi dello scrittore Jason Burke e del giornalista Giordana. La Repubblica il manifesto, 16 gennaio 2016 (m.p.r.)
La Repubblica

KAMIKAZE NEL CUORE DI GIACARTA “L’IS VOLEVA UN'ALTRA PARIGI”

di Raimondo Bultrini
Sotto attacco il centro della città: sette morti e venti feriti. Nel mirino Starbucks e un cinema. Caccia ai membri del commando in fuga

Giacarta. Ci sono ancora transenne e soldati a bloccare la strada dove passanti e curiosi si accalcano a tarda sera nel luogo dove ieri un numero ancora imprecisato di kamikaze si è fatto esplodere spostando, dopo Parigi e Istanbul, il terrore a Oriente, nel Paese islamico più popoloso del mondo: l’Indonesia.

Sei esplosioni e una battaglia fra terroristi e polizia hanno sconvolto la capitale Giacarta alle prime ore del mattino, nel cuore del lussuoso distretto commerciale di via Thamrim, che ospita negozi e ristoranti frequentati dagli stranieri e diversi uffici delle Nazioni Unite Le vittime, sette, sono soprattutto membri del commando, ma anche un turista canadese e un passante indonesiano. Tutto è iniziato quando il primo kamikaze del commando si è fatto eplodere davanti a uno Starbuks, seguito da altri due: mentre i vetri andavano in frantumi decine di persone hanno cominciato a scappare e si sono trovate di fronte altri terroristi che hanno sparato. Qui ci sono state le due vittime, mentre i terroristi attaccavano la stazione di polizia al centro di un incrocio.
Subito dopo aver colpito il bar, gli stessi uomini armati insieme ad altri terroristi imbottiti di esplosivo hanno assaltato il retro del grande magazzino Sarinah, il primo del genere aperto nella metropoli da 10 milioni di abitanti nel lontano 1962. Qui la battaglia è stata cruenta: le forze dell’ordine ci hanno messo ore ad aver ragione dei terroristi. Nel frattempo altri due membri del commando si sono fatti esplodere poco lontano, ma le testimonianze sono confuse. «Abbiamo ucciso 2 uomini del commando, tre si sono fatti saltare in aria, e altri tre sono stati arrestati », hanno detto le autorità. Ma il gruppo dei terroristi secondo alcune fonti era molto più numeroso, almeno 14 persone sostengono i media locali.
«Nel giro di 10 minuti è stato l’inferno », dice un dipendente del bar che è tornato a vedere gli effetti delle esplosioni detonate una dopo l’altra nelle poche decine di metri che separano lo Starbuks dal Sarinah. Se il bilancio alla fine non è stato più drammatico sembra solo il frutto del caso e della massiccia presenza di forze dell’ordine allertate da giorni, a sentire le descrizioni che circolano dai racconti di testimoni e vittime. In ogni caso gli ideatori dell’impresa sono riusciti nell’intento di riportare questo Paese a maggioranza sunnita al centro degli obiettivi dell’Islam fondamentalista, anche se manca ancora ogni prova certa sulla matrice dell’attacco.
Nessun gruppo locale ha rivendicato ufficialmente l’impresa, ma l’Is si è attribuito attraverso un sito simpatizzante la paternità degli attacchi contro «un assembramento di crociati» delle «forze anti Stato islamico»: la mente sarebbe Bahrun Naim, arrestato nel 2011 per traffico di armi, rilasciato e dall’anno scorso segnalato a Raqqa, capitale del cosiddetto Stato Islamico, in Siria. Ma diversi ex membri della Jamaat Islamya reclamano di essere i potenziali rappresentanti locali dell’Is, come il gruppo capeggiato da Abu Wardah, noto come Santoso, leader di una formazione chianata East Indonesia Mujahedin affiliata da tempo all’Is. Santoso potrebbe nascondersi nelle isole delle Sulawesi centrali, a Poso.
Da giorni la polizia segnalava l’intensificarsi del rischio attentati in Indonesia: un allarme rosso era stato diffuso in tutto il Paese dopo la scoperta di una rete in azione formata da ex soldati dello Stato islamico rientrati in Patria dopo aver combattuto in Siria e Iraq, un numero imprecisato ma alto, tra i 200 e gli 800. Pochi giorni fa un militante dei fondamentalisti uighuri dello Xinjang cinese era stato arrestato assieme ad altri con una cintura esplosiva ed era stata la conferma che qualcosa di terribile stava per accadere. «I terroristi avevano annunciato che ci sarebbe stato “un concerto” in Indonesia, ha detto un portavoce della sicurezza». E così è stato.
Ma nonostante l’allarme e i timori per le recenti proteste contro la detenzione del leader di Jamaat Abu Bakar Bashir, accusato di essere il padre del terrorismo islamico nell’arcipelago, la notizia degli attentati è caduta come un macigno sulla popolazione di Giakarta che non si aspettava un’azione così immediata ed eclatante. La stessa zona di Thamrim e le altre strade del centro a traffico sempre intenso e caotico sono rimaste quasi deserte per gran parte del giorno, nel terrore di nuovi attacchi da parte degli altri membri spariti del commando.
Quando è sera la polizia dice che la situazione è ormai sotto controllo. Ogni angolo attorno al luogo dell’attentato, nelle vicine ambasciate, la sede delle Nazioni Unite a pochi passi dal Sarinah e ogni possibile target dei terroristi sono sorvegliate da pattuglie di uomini armati: i controlli andranno avanti per tutta la notte, dopo il messaggio del capo dello Stato Joko Widodo che ha invitato la popolazione alla calma e ha definito l’attacco «un atto di terrore per disturbare la pace e l’armonia della nostra gente».


Il manifesto
A JAKARTA «ATTACCO AI CROCIATI»
di Emanuele Giordana

Indonesia. L’attentato rivendicato da Daesh. Tra le vittime un canadese e un indonesiano. Sette i morti, di cui 5 sono gli attentatori, tutti locali. Tra i feriti un algerino e tre europei

La rivendicazione è arrivata a distanza di qualche ora dall’ennesimo attentato coordinato e che questa volta prende di mira Jakarta, la capitale del più popoloso Paese musulmano del pianeta. Prima un sito vicino al sedicente Califfato poi un messaggio di Daesh che certifica la nuova battaglia contro i «crociati» anche se per la verità, nel cuore di Jakarta, di crociati ve ne sono pochi: tra le vittime ci sono un canadese e un indonesiano (il bilancio è di sette morti di cui 5 sono attentatori, tutti locali) e nella ventina di feriti un algerino, un austriaco, un tedesco e un olandese. Sembra più un caso che un target. La dinamica dell’attentato multiplo è ancora confusa: il numero degli attentatori a cavallo di motorini varia sino a 14.

Le esplosioni sarebbero state almeno sei o sette e sembrerebbero imputabili a tre kamikaze (che fan saltare una baracca della polizia a un incrocio) e a lanci di granate. Un kamikaze entra da Starbacks, la catena internazionale del caffè, fa poco danno ma gli avventori entrano nel mirino dei jihadisti all’uscita dall’edificio.

Ci sono già i primi arresti e la conferma che ci sarebbe proprio Daesh dietro una tentata strage che in realtà è un mezzo fiasco: la paura c’è tutta e nel mirino forse anche ambasciate e una sede dell’Onu ma nella realtà è la popolatissima e popolare zona del Sarinah, uno dei primi centri commerciali della città, a farne le spese e con lei i tanti feriti colpiti dalle schegge di detonazioni tutto sommato poco potenti. Con la paura c’è anche l’effetto mediatico: l’Indonesia come la Francia, Jakarta come Parigi. Lo spettro della guerra totale ancora una volta la fa da padrone colpendo la quotidianità dello shopping in una zona frequentata da ricchi e poveri, magnati in auto sportive e venditori ambulanti.

Le piste sono diverse. Quella di Daesh, secondo la polizia indonesiana, porterebbe a Bahrun Naim, un locale che starebbe combattendo in Siria. La polizia aggiunge che dietro il colpo ci sarebbe anche il tentativo di prendere il comando dei simpatizzanti di Daesh, un movimento che è presente in Indonesia ma senza grandi numeri anche se, alcuni giorni, fa la polizia ha arrestato una serie di sospetti affiliati allo Stato islamico che avrebbero avuto in mano piani di attacco a diversi località nazionali tra cui la capitale. Un piano, dicono gli inquirenti, finanziato con denari provenienti da Raqqa.

Ma in Indonesia c’è anche Al Qaeda: gli attentati - riferisce la Bbc - sono stati preceduti, l’altro ieri, da un messaggio audio di Ayman al-Zawahiri rivolto agli indonesiani e ai musulmani nel Sudest asiatico. Messaggio che li esortava a colpire interessi di Usa e alleati. Poi c’è la pista Abu Bakar Bashir:

Condannato a 15 anni di prigione per un campo di addestramento jihadista, Bashir è considerato il leader spirituale della Jemaah Islamiyah, l’organizzazione terroristica responsabile della strage di Bali del 2002 rivendicata dai qaedisti. Bashir se l’è sempre cavata ma proprio due giorni fa si è visto rifiutare un appello che richiedeva l’applicazione di una sentenza minore comminatagli da una corte di giustizia ma il cui verdetto è stato annullato. Bashir avrebbe giurato fedeltà a Daesh nell’agosto del 2014 ma secondo alcune fonti avrebbe poi ritrattato l’adesione che aveva creato divisioni nel suo gruppo, la Jemaah Ansharut Tauhid (Jat), fondata nel 2008 proprio per non farsi coinvolgere nelle indagini sulla JI.

Il quadro insomma è complesso. Certo Daesh ha un progetto nel Sudest asiatico: dei 30mila non arabi che pare combattano per Daesh, quelli di quest’area sono solo alcune centinaia e gli indonesiani han scelto la linea dura: chi va in Siria (5 o 600 persone) non potrà più tornare a casa. Per adesso nell’arcipelago non si è andati più in là di manifestazioni di sostegno a Daesh — come quella organizzata a Giacarta dal gruppo Islamic Sharia Activists Forum — o dell’adesione di vecchi maestri di jihadismo come nel caso di Bashir. A occuparsi di questi problemi c’è comunque Densus 88, un gruppo d’élite anti terrorismo dalla mano pesante. L’Indonesia infine ha una tradizione di islam moderato che vede i gruppi più importanti del Paese condannare Daesh e venir coinvolti dal governo per evitare che il contagio degeneri.

Sul piano strettamente locale le cose sono però confuse dal fatto che le indagini hanno spesso portato le autorità a fare i conti con la malavita locale, uomini d’affari e agenti deviati, legati da una rete nostalgica della vecchia stagione della dittatura del generale Suharto, durata trent’anni e abile nel manovrare gruppuscoli e sigle per controllare l’opposizione. E con una vocazione al caos da cui far uscire una nuova richiesta di ordine che riproponga il pugno di ferro e gli affari che il clan Suharto garantiva a una compagine di affaristi protetti dal regime.

La Repubblica

Povertà, predicatori d’odio e amministrazioni corrotte così la Jihad contagia l’Asia
di Jason Burke


Jason Burke, 46 anni, è uno dei massimi esperti mondiali di terrorismo. Scrive da Delhi per il Guardian e il suo ultimo libro è The New Threat from islamic militancy da poco pubblicato in Gran Bretagna e negli Stati Uniti

IL 2016 non è iniziato bene. Ogni settimana ha portato con sé nuovi attentati e minacce. Chi sperava in una pausa dal ritmo incessante della violenza è rimasto deluso. All’inizio di questa settimana le prime pagine dei giornali hanno aperto con gli attentati terroristici in Egitto e Istanbul. L’ultimo, un attentato suicida contro turisti tedeschi in una delle mete più celebri d’Europa, ha accentuato la sensazione di pericolo immediato per l’Occidente.

Ieri, però, c’è stato un piccolo spostamento nel quadro globale: l’epicentro degli attentati si è spostato a Oriente, in Indonesia, dove sono stati presi di mira un edificio delle Nazioni Unite e uno Starbucks. Senza dubbio l’epicentro degli attentati si sposterà ancora, ma intanto il mondo è tornato inaspettatamente a guardare verso l’Asia. Dove all’improvviso sembra essersi aperto un nuovo fronte nella guerra globale contro lo Stato Islamico.
Che stiano emergendo problemi in questa parte del mondo islamico che si espande a Est dell’Iran, era prevedibile. In Europa dimentichiamo spesso che è lì che vive almeno la metà dei musulmani. Tutti i più grandi paesi a maggioranza islamica si trovano a Est dell’Afghanistan: inclusi Pakistan (200 milioni), Bangladesh (150 milioni) e Indonesia (270 milioni). Senza dimenticare i 160 milioni che vivono in India. Se aggiungiamo le comunità di altri paesi come Malesia e Afghanistan e le minoranze islamiche di Myanmar, Thailandia e Filippine, il totale tocca gli 800 milioni di musulmani. Solo una piccola parte di loro è dedita alla violenza: ma la minoranza di una maggioranza può diventare un problema enorme.
Non deve stupirci. I fattori chiave della militanza islamica in Medio Oriente sono presenti anche nel Sudest asiatico e nella regione pacifica. Dove c’è un alto numero di giovani disoccupati. Le amministrazioni corrotte e inefficienti non garantiscono i servizi basilari alle popolazioni. E predicatori pagati dai paesi arabi da decenni propagandano l’Islam più conservatore e intransigente, spingendo ai margini letture più tolleranti e sincretiche. Come in Europa, anche qui molti giovani giudicano superati i valori religiosi tradizionali, ma trovano sgradevole ed alieno il consumismo capitalistico occidentale. E c’è una generazione intera cresciuta in mezzo ai conflitti esacerbati dagli attentati del 2001 in America, nutrita dall’infiammata retorica carica d’odio che da quei conflitti è scaturita.
Naturalmente ogni paese ha le sue specificità: il Pakistan ha un rapporto problematico con i gruppi militanti islamici sponsorizzati dallo Stato; gli indiani musulmani sono solo il 14 per cento di un’enorme e variegata nazione a maggioranza hindu; il Bangladesh ha una storia complessa di guerra civile e liberazione che influenza ogni sua forma di partecipazione; l’attivismo filippino ha una componente criminale e legami internazionali che vanno molto indietro nel tempo. Ma questi paesi hanno anche molte cose in comune: come l’attivismo islamico estremista profondamente radicato.
In Indonesia il fenomeno risale alla resistenza opposta dai gruppi musulmani ai colonizzatori olandesi e poi ai vari governi laici successivi. I disordini settari degli anni 90 e 2000 hanno alimentato la crescita di ideologie violente che, all’inizio del millennio, ha partorito un movimento estremista vigoroso e relativamente grande chiamato Jamaa Islamiya. Lo stesso che provocò gli attentati ai nightclub di Bali del 2002, una delle azioni terroristiche più spettacolari post 11 settembre e che nei 5 anni successivi ha portato avanti la sua azione lanciando una campagna terroristica in tutta l’Indonesia.
Nel 2009 quest’ondata di attivismo in Asia e in Europa sembrava smorzata. Fino all’ascesa dello Stato Islamico nessuno pensava si sarebbe ripresentata. Come accaduto altrove, l’Is ha dato nuovo slancio a un movimento quasi scomparso grazie al suo mix di risultati concreti sul terreno e soluzioni utopiche alla questione dell’ummah, la comunità islamica globale. In questo Internet ha aiutato, riversando un fiume di propaganda sugli smartphone della regione pacifica, e bersagliando nello specifico i musulmani indonesiani.
Ripercorrendo a ritroso la storia della violenza in Indonesia emerge però una diversa verità. Che dimostra come l’Is non crea tanto problemi nuovi, quanto resuscita i vecchi. C’erano situazioni di violenza radicata vecchie di decenni in tutti i luoghi dove oggi la violenza è associata alla militanza islamica. In Nigeria Boko Haram opera in una regione dove le ondate di revivalismo si susseguono da decenni. In Egitto la violenza jihadista è iniziata più di 40 anni fa. In Thailandia la violenza dei musulmani malesi nell’estremo Sud del paese è passata nel giro di alcuni anni da una lotta separatista ed etnica di sinistra, a un fenomeno di jihadismo criminale ed efferato. Per ora qui ci sono pochi segnali di penetrazione da parte dell’Is, ma il potenziale è evidente.
Negli ultimi anni una costante dei politici occidentali è stata la scarsa attenzione verso ciò che accade al di là del golfo Persico. Comprensibile, certo. L’Europa ha storicamente avuto maggiori interazioni - positive e negative - con il Medio Oriente e il Nordafrica rispetto a quella con governi e paesi musulmani più distanti. Nell’ultimo mezzo secolo, le risorse di carburante hanno dato al Medio Oriente un’ovvia importanza. Per un decennio Al Qaeda ha riservato la sua attenzione al Pakistan, dove aveva sede, e sul vicino Afghanistan: ma l’avvento dello Stato Islamico, le ha soffiato il posto di più seria minaccia contemporanea all’Occidente. L’Is ha le sue basi in Siria e Iraq, con forti legami emergenti in Egitto, Yemen, e Libia: ed è dunque in direzione di questi paesi che dobbiamo rivolgere oggi la nostra attenzione.
Per fortuna, la maggior parte degli estremisti ignora la metà dell’ummah che vive a Est del territorio dell’Is. Il progetto propagandistico degli estremisti privilegia il Medio Oriente sopra ogni altra regione, perché è qui che è nata la fede islamica, qui sorgono i suoi luoghi più santi, e qui si sono avvicendati i califfati fondati dalla morte del Profeta Maometto in poi. E privilegia anche l’arabo e gli arabi.
Questo potrebbe rivelarsi un inconveniente enorme per il jihadismo in Asia. Anche se in Siria combattono per lo Stato Islamico battaglioni internazionali - comprendenti anche una brigata mista di indonesiani e malesi - la visione complessiva dei suoi leader resta in sostanza provinciale, malgrado tutta l’eloquenza universalistica. Ed è proprio questa sua limitatezza, al pari della sua orrenda violenza e della sua intolleranza reazionaria, a far sì che la stragrande maggioranza degli 800 milioni di musulmani asiatici continuerà a respingerne l’ideologia e il messaggio imbevuto di odio.
Traduzione di Anna Bissanti
Il manifesto
«BELLA EPOQUE» DELLA DITTATURA E JIHADISMO
di Emanuele Giordana
Può rassicurarci, oltreché allarmarci, sostenere che Jakarta è come Parigi e Istanbul. Che Daesh ha un progetto globale e che il Paese delle 13mila isole è il tassello più gustoso del Califfato allargato. Ma la targa Stato islamico sull’attentato di Jakarta non deve farci dimenticare di che Paese parliamo. Ogni nazione ha una storia nella quale il jihadismo, al netto dell’imperscrutabile richiamo che esercita soprattutto su alcuni giovani musulmani, può giocare un ruolo eterodiretto.

E non solo da Raqqa. L’Indonesia, fino ad allora sopratutto meta turistica e, per i più edotti l’ex regno di una dittatura ultratrentennale, fece parlare di sé nel 2002 con la bomba di Bali. Duecentodue morti in maggioranza stranieri quando ancora colpire i turisti era una novità. Le indagini, indirizzate sulla Jemaah Islamiyah e sul controverso guru islamico Abu Bakar Bashir, rivelarono piste che puzzavano di bruciato. Alcune infatti portavano più in là del jihadismo locale, tutto sommato un fenomeno - oggi come allora - residuale.

Portavano a figure oscure che si muovevano tra la potente malavita indonesiana, ricchi businessman, settori dell’esercito, l’unico soggetto in grado di possedere esplosivi e che vantava una lunga storia di infiltrazioni nei movimenti islamisti e settari perché servissero a scatenare il caos: prima in funzione anti comunista, poi - dopo il golpe del 1965 e con l’avvento di Suharto - per controllare possibili ribelli.

Poi ancora - nella nuova e fragile stagione di una neonata democrazia - per poter di nuovo servirsi del caos e instillare l’idea che un ritorno della vecchia guardia al potere fosse la panacea: ordine, la stessa parola che aveva segnato la stagione del dittatore che l’aveva appunto chiamata Orde Baru, «ordine nuovo».

Dunque malavita, potentati economici legati al crony capitalism della famiglia Suharto, pezzi dei servizi militari deviati e riconducibili al periodo della dittatura. Questa società nascosta e segreta aveva e ha in odio la nuova stagione democratica. Se n’è fatta in parte una ragione ma rimpiange la belle epoque della dittatura.

Legami diretti tra la stagione stragista iniziata nel 2002 (e ripetutasi sino al 2009 con le bombe negli alberghi e poi ancora, solo qualche tempo fa, con un’esplosione davanti alla casa del sindaco di Bandung) non sono mai stati dimostrati ma a tratti i nomi di qualche businessman o di qualche agente o di qualche militare saltava fuori. Poi - complice una magistratura molto morbida - le sigle Al Qaeda e Jemaah Islamiyah coprivano tutto.

Se dietro ai fatti di ieri ci sia qualche burattinaio locale è presto per dirlo ma nel conto bisogna metterci anche questa ipotesi se non si vuole che il brand Daesh serva a insabbiare possibili piste dove si muovono i protagonisti di un’epoca che ancora non è passata. Anzi, proprio il nuovo segno della politica indonesiana, incarnata dall’outsider Joko Widodo, deve mettere in guardia.

Quando si presentò alle presidenziali del 2014 sfidò nientemeno che un genero di Suharto, primo marito di Titiek, la più giovane delle figlie dell’ex dittatore ormai defunto. A Prabowo Subianto, ex generale e uomo d’affari, guardava proprio il vecchio mondo del crony capitalism e dei nostalgici della dittatura. Joko Widodo vinse. Ma quelle forze oscure che rimpiangono il passato sono tutt’altro che sconfitte: prova ne sia che a distanza ormai di cinquantanni è ancora vietato discutere del golpe del 1965 e delle stragi che ne seguirono.

È in quell’oscura trama di interessi che Daesh o chi per lui può trovare alleati. Ancor prima che tra qualche giovane dei sobborghi di Jakarta o di Bandung abbagliato dall’utopia jihadista di Al Bagdadi.

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