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Renzo Guolo
L'IS, anatomia di una radicalizzazione
10 Dicembre 2015
2015-La guerra diffusa
«Non mera disputa semantica. Il termine radicalizzazione mette in luce processi che conducono i singoli a aderire a Is o Al Qaeda. Il termine terrorismo illumina meglio il modus operandi jihadista nella guerra asimmetrica».
«Non mera disputa semantica. Il termine radicalizzazione mette in luce processi che conducono i singoli a aderire a Is o Al Qaeda. Il termine terrorismo illumina meglio il modus operandi jihadista nella guerra asimmetrica».

La Repubblica, 10 dicembre 2015 (m.p.r.)

Si tratti del massacro del Bataclan o della strage di San Bernardino, il termine radicalizzazione - lo ha usato recentemente anche Obama, esprimendo il timore per la sua crescente espansione - ricorre sempre più spesso nel linguaggio politico e mediatico. In particolare nel mondo anglosassone o francese, da sempre attento alle fasi che precedono il passaggio alle formazioni, o alle azioni, di tipo jihadista. Nella discussione italiana, invece, è ancora a dominante il termine terrorismo, spesso legato, più che all’efficacia descrittiva, a una concezione rovesciata del politically correct.Una confusione che impedisce di distinguere il prima e il dopo, la fase che conduce a imboccare la via del jihad con la pratica del jihad. Una sovrapposizione non certo ininfluente, se l’obiettivo è la prevenzione mediante svuotamento dell’acqua in cui nuotano i sempre più numerosi pesci radicali.

Non si tratta di una mera disputa semantica. Il termine radicalizzazione mette in luce i processi che conducono i singoli a aderire a gruppi come l’Is o Al Qaeda. Il termine terrorismo illumina meglio il modus operandi degli jihadisti nella guerra asimmetrica, la genesi e la natura delle organizzazioni in cui militano, le loro opzioni politiche e militari, gli effetti che queste producono a livello globale e locale. Il rimando alla radicalizzazione concentra l’attenzione sul prima, sulle fasi che precedono la scelta jihadista. Lo sguardo è rivolto non solo alle cause politiche ma anche alle componenti sociologiche, antropologiche, psicologiche, che conducono l’individuo a quell’opzione. Perché vi sia radicalizzazione occorre che una serie di fatti e fenomeni sociali legati tra loro, o interpretati come tali, producano un mutamento che investe progressivamente l’individuo.
La radicalizzazione non si manifesta improvvisamente: se non agli sguardi esterni che colgono il fenomeno quando i suoi effetti sono già irreversibili. Il percorso che conduce a quell’esito apparentemente improvviso avviene in tempi più lunghi. Perché ha che fare con le motivazioni profonde dell’individuo, che si innescano quando questi incrocia avvenimenti storici che hanno funzione catartica, come la guerra in Siria o la condizione di vita nelle periferie urbane unite al risentimento verso un paese che, nei fatti, non riesce a colmare le fratture sul piano della diseguaglianza e nel quale la doppia memoria, quella dei colonizzatori e quella dei colonizzati struttura, più di quanto si ammetta nelle narrazioni dominanti, i rispettivi immaginari collettivi: come nel caso francese. Perché vi sia radicalizzazione occorre che una traiettoria personale interagisca con un ambiente favorevole e una particolare contingenza storico-politica.
Il focus sui processi di radicalizzazione chiama in causa lo spazio della politica. L’accento sulla sola sicurezza, fattore pur indispensabile, pone, invece, in primo piano il rilievo della dimensione di intelligence, investigativa e repressiva. Ma, come rammenta ogni efficace storia di contrasto alle diverse forme di terrorismo, da sola quella dimensione non è sufficiente. Occorre intervenire sulle cause che lo alimentano. Il nodo è contrarre i processi di radicalizzazione. Ridurli a dimensione residuale.
Non è questa, oggi, la situazione. Il radicalismo islamista, fenomeno che ha una sua autonomia politica e non dipende da questa o quella particolare causa ma dalla credenza in un’ideologia, tanto totalizzante quanto mobilitante, che agli occhi di molti giovani offre una risposta di senso, si diffonde. Perché rinvia al tema, decisivo, delle identità. Identità che, nel tempo della proclamata fine delle ideologie, qualcuno ritrova in una concezione del mondo che si propone come inflazione di valori, come ultima utopia, come solo antagonismo di sistema.
Incidere sui processi di radicalizzazione, compito tanto difficile quanto necessario, è l’unico modo per ridurre un fenomeno che, altrimenti, rischia di dilagare. Mettendo in discussione non solo le relazioni internazionali ma la vita quotidiana e la natura delle democrazie, destinate a diventare altrimenti il terreno delle torsioni e delle ritorsioni. E della guerra civile mimetica. Solo la ripresa di una politica in grande stile, capace di aggredire le cause catartiche che conducono a imbracciare il kalashnikov o indossare una cintura esplosiva, può tentare di farlo. In caso contrario un terrorismo come quello jihadista, di natura globale e che si presenta attrattivamente con il volto del radicalmente altro innestato su simbologie religiose, diverrà endemico.
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