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Paolo Rumiz
Io legionario tra Roma e Brindisi, alla ricerca dell'Appia perduta
2 Agosto 2015
Beni culturali
Un viaggio nella storia e la geografia, la convincente proposta di un sogno che un giorno o l'altro bisognerà realizzare, se riusciremo a evitare che ci asfaltino del tutto. La prima puntata del viaggio estivo di un grande viandante.

La Repubblica, 2 agosto 2015

Attenti, ci dicevano, dopo i colli la traccia si perde: sarà una fatica tremenda. Ma non potevamo rassegnarci all’idea che proprio l’Italia non avesse strade romane percorribili, fatte di pietra, sangue e sudore”

Quando, dopo il guado di un fiume, un roveto o un campo di grano, la via ridiventava visibile, ben allineata con la direttrice che avevamo perso chilometri prima in un intrico di sentieri, asfalto o canneti, e una ventina di satelliti sopra di noi confermavano quel fatidico allineamento sullo schermo del Gps, allora anche la parte svanita della strada si ricomponeva sulla mappa, evidenziando tracce giudicate di primo acchito trascurabili. Ma soprattutto qualcosa si rimetteva a posto anche dentro di noi, e una magnifica esultanza si diffondeva nel gruppo in cammino.

Non stavamo solo ripercorrendo l’Appia antica. La stavamo ritrovando. La riconsegnavamo al Paese dopo decenni di incuria e depredazione. Patrimonio non è merce in vendita, ornamento di sponsor, scusa per sdoganare cemento. Patrimonio è la terra dei padri. E noi questo cercavamo, non con la testa e forse nemmeno col cuore. Volevamo farlo coi piedi, che vivaddio non sono arti - parola orrenda - ma nobilissimi organi di senso. Erano quelli il sismografo, il metal detector, la bacchetta di rabdomante. Partiva così la nostra rivolta contro l’oblio. Essa aveva trovato un segno, un simbolo unico e forte in cui incarnarsi: la prima via di Roma, la madre dimenticata di tutte le strade europee.


Ricordo che dopo giorni di cammino, non avevamo più bisogno di trovare noiose conferme nel selciato romano o nei marciapiedi chiamati crepidini. Ci bastava la potenza della direzione.
Era come se la strada che dovevamo raccontare non fosse quella riducibile alla sequenza dei monumenti e nemmeno quella annotata in fretta nel taccuino, ma l’idea di strada, la linea in sé, il filo rosso dell’altimetria, latitudine e longitudine, la direttrice che tagliava l’Appennino e fuori dalla quale ci sentivamo subito inquieti. La traccia che le nostre suole indovinavano, pestando un passo doppio ogni centoquarantotto centimetri, un millesimo di miglio romano, allo stesso ritmo delle legioni. In molti avevano cercato di dissuaderci.

Attenti, dicevano, dopo i colli romani la traccia si perde. Troverete cemento e tangenziali, recinti privati e cani liberi. Sarà una fatica tremenda. Se proprio volete farvi una strada romana, andate sulla Claudia Augusta, dal Po al Danubio in Baviera, che è segnata a meraviglia. Ma noi non ci lasciavamo tentare. Non potevamo rassegnarci all’idea che proprio l’Italia non avesse strade romane percorribili. Ci mandava in bestia che proprio la “Regina Viarum” si perdesse nel nulla. Più cercavano di farci desistere, e più ci convincevamo che l’idea era buona.
Ma quelli non mollavano. Fate piuttosto il Cammino di Santiago, era il refrain, almeno troverete compagnia. Per noi era come una puntura di vespa. Ma come? Ci proponete una riserva indiana? A noi che si muore dalla voglia di attraversare il Paese fuori dai sentieri segnati? E poi, basta Santiago. Che noia. Possibile che non ci sia altro? Basta pellegrini, basta Francigene. Noi eravamo solo viandanti, e volevamo una strada laica, italiana e tutta nostra. Non una moda, un’invenzione del marketing, ma una direttrice indiscutibile e solitaria, scolpita nella pietra, fatta di sangue e sudore, percorsa da legionari e camionisti, apostoli e puttane, pecorai e carri armati, mercanti e carrettieri. Una linea che ci possedesse.

E difatti, ora che l’abbiamo battuta metro per metro, ora che tutto è finito, non riusciamo a togliercela di testa. Sogniamo pale eoliche, serpenti nel grano, tarantole e istrici, il trillo delle rondini a Venosa e il canto dei sanniti negli antri fra Volturno e Ofanto. «L’Appia è una droga pesante» ghignava appena ieri uno dei compagni di viaggio con gli occhi arrossati dal computer dopo giorni di “Google street view”, a rifare a volo d’uccello la strada battuta a quota zero. Settimane dopo, ogni passo torna con nitidezza. La partenza da Roma con l’acqua a secchi giù da porta San Sebastiano, l’antico che diventa villa privata, ornamento per feste di ricchi. La solitaria guerra di posizione della Soprintendenza, il fiato della Camorra sulla Capitale. E avanti, il taglio obliquo dei Colli Albani, la segnaletica che muore, lo scavalco di recinti abusivi, poi la fucilata di cinquanta chilometri fino a Terracina, il rettilineo più lungo d’Italia.

E ancora Formia, e Mondragone, e Santa Maria Capua Vetere, dove i comitati “Appia Antica” non servono a difendere la via, ma a difendersi dalla via. Posti dove Roma abita in ogni giardino, ogni cantina e sottoscala, e dove l’archeologo — come lo Stato e le leggi — è più temuto della peste. Poi, la via che si smaterializza, sorvola le montagne irpine riducendosi a concetto astratto, ipotesi o puro fattore euclideo, avanti per una campagna che si è mangiata quasi tutto e dove da secoli la parola “riuso” è il primo comandamento dell’edilizia. Pezzi di lastricato romano graziosamente disposti nel prato inglese di un giardino, capitelli incastrati nei muri, reperti medievali a segnare il confine tra poderi. Un saliscendi dove il tracciato s’immerge sempre più a lungo, solo per ritornare sporadicamente in superficie con gobba di capodoglio tra le convessità ondose dell’oceano.
Nelle plaghe africane dell’Apulia, ecco la nostra marcia procedere verso il solstizio in una luce vitrea e rovente, con la Via Regina che per lunghi tratti diventa fatamorgana, si fa sogno e mitologia e sete, si perde tra uliveti, campi di papaveri e aglio selvatico, ma egualmente non ci molla, ci segue come un fantasma meridiano, in una stupefacente metamorfosi che ce la restituisce con nomi sempre diversi — paracarro, rudere, campo di frumento, strada provinciale, fontana, metanodotto, solco di carri sulla roccia viva, tiglio solitario, muretto a secco, greto, tratturo, fermata d’autobus, passaggio a livello, pelle di serpente — solo per gettarsi nelle fauci infuocate del drago, l’altoforno dell’Ilva tarantina.

Immagini. L’albergatore di Albano Laziale che ci vede arrivare fradici e chiede: «Ma chi ve l’ha inflitta questa galera?». Le mani grandi degli agricoltori campani, piene di fave fresche in regalo ai viandanti «nel nome del Padreterno». Il mitico “vaffa” di un pullmino di operai verso Latina, invidia di pendolari condannati alla galera dell’asfalto. Una macchina a San Giorgio Ionico, in piena controra, che rallenta in una rotonda e ci allunga una bottiglia di acqua fresca come al Tour de France. La tarantella dei campanacci al collo delle vacche di Itri che ci tagliano la strada all’inizio della transumanza. Un pastore dalle parti di Melfi che segue il gregge con un’auto sgangherata e chiede: «Ma chi vi paga?». Il canto degli assetati verso l’Adriatico, «Voglio ‘o maaaare», cui segue il grido «Jateme ‘a bbirra», fino all’arrivo col sole allo zenit, Brindisi trentasette all’ombra, e il tuffo vestiti ai piedi della colonna terminale. La malinconia della fine, la barba d’un mese, il sacco sfatto, l’attesa della sera in uno svolio di rondoni, ebbri di negramaro e finocchietto
.
Era aprile, ricordo. L’idea era già chiara in mente, e anche Alex il regista era d’accordo. Non esiste, diceva, copione migliore di una strada. Ero d’accordo anche come giornalista. Se non sai cosa scrivere, mi aveva insegnato anni fa Egisto Corradi, cammina e qualcosa troverai. E siccome alla mia storia mancava un grande viaggio a piedi, l’Appia sembrava perfetta. Ma sapevo che da solo non ce l’avrei fatta. Quel viaggio era roba tosta, esigeva un navigatore capace di decrittare ogni traccia e isoipsa. Uno l’avevo già conosciuto, si chiamava Riccardo Carnovalini, un ligure col radar sotto i piedi, un domatore di rovi e torrenti, forse il massimo camminatore italiano. Gli telefonai, e quello disse subito sì, perché l’Appia - quel nome come un do di petto - ti conquista già col nome.

Una settimana dopo lo rividi per uno “studio di fattibilità” nella hall di un albergo davanti alla stazione di Bologna. Ci venne incontro con un sorriso mite ma pieno di orgoglio. «Io il viaggio l’ho già fatto», disse, ed estrasse dal tascapane una diavoleria simile a un citofono. Era il suo Gps. Spiegò che ci aveva pigiato dentro montagne di dati. Le carte antiche, la tracciatura dell’archeologo Lorenzo Quilici, le tavolette al 25 mila dell’Igm («La magnifica serie 25 V — disse — degli anni Cinquanta»), la viabilità attuale, le ortofoto satellitari del ministero dell’Ambiente, le notizie racimolate da un sito di esploratori del territorio chiamato “Open street map” e da www.straderomane. it. Accese lo schermo. «La strada è già tutta qui», fece indicando una linea rossa che tagliava strade, città, linee ferroviarie, elettrodotti, navigando imperterrita verso Est-Sud-Est.

Era lei, la fantastica diagonale d’Oriente, aperta ventiquattro secoli prima, che andava senza deflettere, incurante dei dislivelli con la ricerca maniacale del rettilineo tipica di quelle teste dure dei Romani. Era il sogno, o forse il delirio, di un cieco di nome Appio Claudio, l’uomo che a partire dal 312 avanti Cristo ne aveva tracciato la prima parte fino a Capua. In tutto, trecentosessanta miglia di ghiaia e possenti selciati, pari a cinquecentotrentatré chilometri, che però sarebbero diventati seicentoundici per noi, a causa dei numerosi ostacoli messi in mezzo dai tempi moderni. Capannoni, tangenziali, proprietà private. Riccardo aveva studiato tutto, anche le tappe, in base ai punti di sosta reperibili e ricalcando ove possibile le stazioni romane ( mansiones e stationes ).

Era fatta. Saremmo partiti in quattro, a piedi come immigrati. Quattro matti a piede libero, senza prenotazioni di alberghi e senza auto d’appoggio. Con noi anche Irene, veneta mezza austriaca, architetto con passione per l’ambiente, un tipo silenzioso capace di render lieve la trasferta alla più rissosa delle compagnie. A Bologna, le sessantanove carte che Alex aveva comprato all’Istituto geografico Militare di Firenze vennero aperte una per una, esplorate, annusate, numerate e ripiegate. Vecchie di sessant’anni, contenevano una pazzesca quantità di informazioni e toponimi utili alla traversata. Al loro confronto, le mappe contemporanee denunciavano tutta la banalizzazione dei territori e la distanza degli Italiani dal loro Paese.

Celebrammo con un aperitivo, poi venne la notizia a ciel sereno. Un pezzo dell’antica via Emilia era stato appena ritrovato in via Ugo Bassi, proprio lì a Bologna, e corremmo a vedere. Sopra il basolato ancora sporco di fango, tra le benne, un gruppetto di politici e pubblici amministratori si faceva immortalare da un fotografo. Pensammo fosse per sancire una restituzione. Invece no: serviva solo a tombare a cuore più leggero la via appena ritrovata. Non seguì alcuna polemica. Bologna aveva una sola paura: che l’antico non bloccasse l’asfalto. Ricoprire, ricoprire in fretta. Era quello l’imperativo. Era già successo a Reggio Emilia, ci dissero. Anche per la sinistra l’antichità era un intralcio. Il Nord era come il Sud. Eravamo davanti all’amnesia di una nazione.

Era esattamente ciò che non volevamo accadesse con l’Appia, e così, già prima di partire, giurammo che quella fatica non sarebbe rimasta senza esito. La nostra via era un giocattolo fantastico e bisognava a tutti i costi riaprirla ai viandanti. Lungo il cammino il proposito divenne ossessione: lasciare l’Appia in quello stato era un crimine. Per riattivarla bastava poco: un buon tagliaerba, qualche passerella, una segnaletica coerente e un coordinamento governativo che mettesse insieme i novanta comuni interessati. Era quanto bastava a far affluire centinaia se non migliaia di stranieri innamorati delle nostra storia. Il resto poteva arrivare anche dopo: ricupero come ospizi di caselli ferroviari e case cantoniere, monitoraggio, cartografia, restauro di cippi e monumenti, messa in sicurezza del basolato. L’importante era creare subito un flusso.

Non so dire cosa mi resti più impresso di questa avventura. Non so decidermi fra le facce e i paesaggi, le cose viste e quelle assaggiate o solo annusate. Di certo so che questo è stato il più terreno e insieme il più visionario dei miei viaggi. Il cibo mediterraneo ha fatto il suo, per impastare passato e presente. Melanzane fritte e Federico di Svevia. Aglianico e canti ebraici di Oria. Freselle al pomodoro condite con le Satire di Orazio Flacco. Vino flegreo e i canti tribali di Vinicio Capossela con la sua Banda della Posta. Lampascioni e Simon Pietro in viaggio verso Roma. Perché il viaggio, insegna Calvino, passa anche tra le labbra e l’esofago. E chi, viaggiando, non cambia dieta, non ha capito nulla.

(1 - continua)
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