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Ferruccio Sansa
Fedeli al partito oppure all'Italia?
11 Marzo 2015
Articoli del 2015
"Il Pd non è solo un partito di potere, ci sono tanti uomini e donne che ci credono".E' vero, ma non possono non avere occhi per vedere nè orecchie per sentire. A loro rivolge il suo appello il giornalista de
Il Fatto quotidano, 9 marzo 2015

"Il Pd non è solo un partito di potere, ci sono tanti uomini e donne che ci credono". Vero, ha ragione l'alto dirigente democratico che ti agita davanti una copia del Fatto Quotidiano. Ma ha anche torto. E la colpa non è solo di Matteo Renzi e della sua corte selezionata premiando l'ossequio più che i meriti.
No, la deriva del maggiore partito italiano - sempre più simile al Psi craxiano, ma forse ancora più insidioso - è responsabilità soprattutto di quella zona grigia di dirigenti e onorevoli che nasconde il proprio dissenso, che ha il coraggio di manifestarlo soltanto nel chiuso di stanze e corridoi. Non intendiamo i D'Alema che vorrebbero scalzare Renzi per riproporre il loro decrepito siste
ma di potere. Parliamo di gente talvolta capace e perbene. Che prova sincero disagio. Eppure tace, al massimo si limita a criptiche - e magari penose - manifestazioni di dissenso. Ti ritorna in mente quel pezzo grosso del partito che paonazzo di sdegno si scaglia - in privato - contro Davide Serra e il clan di finanzieri che stringono un nuovo Nazareno alla corte di Mediolanum. O magari quel membro del Governo che, sussurrando, giura e spergiura quanto per lui sarebbero importanti le riforme quelle vere - della giustizia: corruzione e falso in bilancio. Ma alla prova dei fatti sembra liquefarsi. E ancora quel sindaco di una grande città che punta il dito su Debora Serracchiani che passa le giornate a Roma dividendosi tra la poltrona del direttivo Pd e quelle degli studi televisivi, quando ha già un compito da governatrice del Friuli Venezia Giulia che da solo basterebbe a far tremare i polsi. O infine quel consigliere regionale della Toscana: in privato critica le cementificazioni selvagge firmate Pd e poi in consiglio presenta emendamenti che rischiano di vanificare il coraggioso Piano Paesaggistico dell'assessore Anna Marson.

Perché fanno così? Certo, c'è chi ha una poltrona da difendere e se la perdesse finirebbe a spasso dal momento che non ha mai lavorato in vita sua. Ma non solo. C'è chi ci crede davvero. Gente che viene ancora dal Pci e ha conservato un profondo senso di fedeltà al partito. C'è chi è sinceramente convinto che l'unità sia un bene da preservare. Non sono valori da disprezzare. Eppure proprio a queste persone che puntellano e legittimano il renzismo verrebbe da porre alcune domande: conta più la fedeltà al Pd oppure ai propri ideali e ai programmi sui quali si è avuto il consenso? Che valore ha un partito nel momento in cui i suoi interessi confliggono con quelli di una regione, di un Paese e dei cittadini? Non sarebbe il momento di uno scatto di orgoglio e coraggio anche a costo di un sacrificio personale?"Il Pd non è solo un partito di potere, ci sono tanti uomini e donne che ci credono". Vero, ha ragione l'alto dirigente democratico che ti agita davanti una copia del Fatto Quotidiano. Ma ha anche torto. E la colpa non è solo di Matteo Renzi e della sua corte selezionata premiando l'ossequio più che i meriti.

No, la deriva del maggiore partito italiano - sempre più simile al Psi craxiano, ma forse ancora più insidioso - è responsabilità soprattutto di quella zona grigia di dirigenti e onorevoli che nasconde il proprio dissenso, che ha il coraggio di manifestarlo soltanto nel chiuso di stanze e corridoi. Non intendiamo i D'Alema che vorrebbero scalzare Renzi per riproporre il loro decrepito sistema di potere. Parliamo di gente talvolta capace e perbene. Che prova sincero disagio. Eppure tace, al massimo si limita a criptiche - e magari penose - manifestazioni di dissenso.

Ti ritorna in mente quel pezzo grosso del partito che paonazzo di sdegno si scaglia - in privato - contro Davide Serra e il clan di finanzieri che stringono un nuovo Nazareno alla corte di Mediolanum. O magari quel membro del Governo che, sussurrando, giura e spergiura quanto per lui sarebbero importanti le riforme quelle vere - della giustizia: corruzione e falso in bilancio. Ma alla prova dei fatti sembra liquefarsi.
E ancora quel sindaco di una grande città che punta il dito su Debora Serracchiani che passa le giornate a Roma dividendosi tra la poltrona del direttivo Pd e quelle degli studi televisivi, quando ha già un compito da governatrice del Friuli Venezia Giulia che da solo basterebbe a far tremare i polsi. O infine quel consigliere regionale della Toscana: in privato critica le cementificazioni selvagge firmate Pd e poi in consiglio presenta emendamenti che rischiano di vanificare il coraggioso Piano Paesaggistico dell'assessore Anna Marson.

Perché fanno così? Certo, c'è chi ha una poltrona da difendere e se la perdesse finirebbe a spasso dal momento che non ha mai lavorato in vita sua. Ma non solo. C'è chi ci crede davvero. Gente che viene ancora dal Pci e ha conservato un profondo senso di fedeltà al partito. C'è chi è sinceramente convinto che l'unità sia un bene da preservare. Non sono valori da disprezzare. Eppure proprio a queste persone che puntellano e legittimano il renzismo verrebbe da porre alcune domande: conta più la fedeltà al Pd oppure ai propri ideali e ai programmi sui quali si è avuto il consenso? Che valore ha un partito nel momento in cui i suoi interessi confliggono con quelli di una regione, di un Paese e dei cittadini? Non sarebbe il momento di uno scatto di orgoglio e coraggio anche a costo di un sacrificio personale?

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