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Sebastiano Messina
Dalla morte di Piersanti al no sulla Mammì una carriera con la schiena dritta
29 Gennaio 2015
Articoli del 2015
«Sergio Mattarella. Modi felpati e principi inviolabili, a Montecitorio lo conoscono in pochi. De Mita lo mandò in Sicilia a bonificare la Dc di Lima. Dopo il Mattarellum sostenne Prodi e l’Ulivo. Più volte ministro, fu vicepremier di D’Alema. È tra i fondatori del Pd».

La Repubblica, 29 gennaio 2015 (m.p.r.)

«Mattarella? Ma se lei va a domandare ai deputati chi è, le risponderanno: chi, il cugino dell’onorevole Mattarellum?». Forse ha ragione Pino Pisicchio, che conosce bene i suoi colleghi parlamentari: a Montecitorio lo conoscono in pochi, l’uomo che potrebbe diventare il dodicesimo presidente della Repubblica. Perché in Transatlantico lui non si fa vedere da sette anni, e da allora qui dentro è cambiato quasi tutto: a cominciare dalle facce dei deputati. Però si fa presto a descriverlo. Avete presente Renzi? Bene, Sergio Mattarella è il suo esatto contrario. E’ uno che ama il grigio, evita le telecamere, parla a bassa voce e coltiva le virtù della pacatezza, dell’equilibrio e della prudenza. «In confronto a lui, Arnaldo Forlani è un movimentista » disse una volta Ciriaco De Mita, che lo conosce meglio di tutti perché 28 anni fa lo nominò ministro.

Ma proprio De Mita sa che sotto quel vestito grigio e dietro quei modi felpati c’è un uomo con la schiena dritta, un hombre vertical capace di discutere giorni interi per trovare un compromesso con l’avversario, ma anche di diventare irremovibile se deve difendere un principio, una regola o un imperativo morale. Come fece la sera del 26 luglio 1990, quando – con un gesto che ancora oggi Berlusconi ricorda – si dimise da ministro della Pubblica Istruzione perché Andreotti aveva posto la fiducia sulla legge Mammì, quella che sanava definitivamente le tre reti televisive del Cavaliere. Si dimisero in cinque (c’erano anche Martinazzoli, Fracanzani, Misasi e Mannino) ma fu lui a spiegare quel gesto di rottura senza precedenti, e lo fece a bassa voce e senza usare un solo aggettivo polemico: «Riteniamo che porre la fiducia per violare una direttiva comunitaria sia, in linea di principio, inammissibile…». Poi, quella sera, incrociò Martinazzoli e gli chiese: «Hai consegnato la lettera di dimissioni?». «Certo, l’ho appena fatto». «E hai fatto una fotocopia?». «No, perché? ». «Perché Andreotti è capace di mangiarsela, la tua lettera, pur di farla scomparire…».

Nato settantaquattro anni fa a Palermo, figlio di Bernardo che era stato ministro, deputato e potente democristiano in Sicilia, Sergio Mattarella voleva fare il professore di diritto pubblico. L’eredità politica del padre era stata raccolta dal fratello maggiore, Piersanti, che era rapidamente arrivato alla poltrona più potente dell’isola: la presidenza della Regione. Ma quando la mafia capì che quel politico quarantacinquenne non si sarebbe piegato alle sue regole, decise di toglierlo di mezzo con il piombo di una pistola. Sergio vide morire il fratello tra le sue braccia – era il 6 gennaio 1980 – e fu forse in quel momento che fece la sua scelta: avrebbe fatto politica per non darla vinta a chi aveva ordinato l’assassinio.
Così tre anni dopo fu eletto deputato (in quota Zaccagnini), e l’anno dopo De Mita – diventato segretario – scelse proprio lui come plenipotenziario del partito in Sicilia. La missione era chiara: doveva bonificare la Dc di Lima e Ciancimino. La mossa di Mattarella arrivò quando si trattò di scegliere il nuovo sindaco di Palermo. Lui scelse, e riuscì a far eleggere, un giovane professore che era stato tra i consiglieri del fratello: Leoluca Orlando. Poi De Mita, quando arrivò a Palazzo Chigi, lo richiamò a Roma. Ministro dei Rapporti col Parlamento. Andreotti lo nominò alla Pubblica Istruzione, e finì come sappiamo. Mattarella tornò a fare il deputato. Ripensarono a lui quando si trattò di riscrivere la legge elettorale per adeguarla all’esito del referendum di Mario Segni. Così nacque quell’incastro tra collegi uninominali e quote proporzionali che fu poi battezzato da Giovanni Sartori con il nome del suo autore: Mattarellum.
Il destino volle che fosse proprio quella legge, sotto il ciclone di Tangentopoli, a far crollare il partito di Mattarella, la Dc. Ma lui fu uno dei pochi che sopravvissero alla Prima Repubblica, perché l’unica macchia che erano riusciti a trovargli era una vecchia storia di buoni benzina regalatigli da un costruttore siciliano (assoluzione piena, «il fatto non sussiste»). Nel Partito popolare che prende il posto della Dc, Mattarella fu uno degli oppositori della linea filo-berlusconiana di Buttiglione («Vuole uccidere il partito» disse) e anche uno dei sottoscrittori della candidatura a premier di Romano Prodi, schierando il partito con il centro-sinistra. Poi vennero l’Ulivo, la Margherita e infine il Partito democratico, del quale Mattarella scrisse (con Pietro Scoppola e altri quattro) il manifesto fondativo.
Non fu Prodi però a farlo tornare al governo, ma Massimo D’Alema. A Mattarella toccava la guida del gruppo dei ministri del Ppi, e dunque la vicepresidenza del Consiglio. Poi arrivò anche il ministero: la Difesa. E lui realizzò l’impresa che non era riuscita a nessuno dei suoi predecessori: l’abolizione della naja, il servizio militare obbligatorio. Restò anche con il governo Amato, poi lasciò il governo e, nel 2008, anche il Parlamento. Che però si è ricordato di lui quando, quattro anni fa, bisognava trovare il nome di un giudice costituzionale che avesse un ampio consenso. E lui fu eletto. Sembrava che non ce l’avesse fatta, che avesse mancato il quorum per un solo voto, ma quando le schede furono ricontate si scoprì che quel voto in più c’era. Era il 5 ottobre 2011. Dopo tre anni e quattro mesi, si voterà ancora una volta sul suo nome. E lui non sarà il solo ad aspettare lo spoglio con il fiato sospeso.
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