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Sergio Lironi
Sergio Lironi: Un contributo alla discussione di una legge devastante
11 Novembre 2014
La legge Lupi
Una convincente analisi delle ragioni per cui la nuova legge Lupi «anziché proporre un aggiornamento ed un superamento in positivo della legislazione urbanistica vigente, ne scardina alcuni dei presupposti fondamentali con prevedibili devastanti effetti su un territorio e un paesaggio già martirizzati».

Il nuovo disegno di legge presentato dal ministro Lupi il 24 luglio 2014 si propone di sostituire la legge urbanistica del 1942 definendo al Titolo I i “Principi fondamentali in materia di governo del territorio, proprietà immobiliare e accordi pubblico privato”, principi che dovrebbero regolare l’azione dello Stato nelle materie di propria competenza e coordinare ed orientare l’azione delle Regioni e degli enti locali per le politiche territoriali concorrenti o a loro direttamente attribuite dal dettato costituzionale.

Con l’introduzione del concetto di “governo del territorio” ci si sarebbe dovuti aspettare un progetto di legge in grado di riunificare e riordinare le molte discipline che oggi incidono sugli usi del suolo e sulle trasformazioni territoriali, individuando le strette connessioni ed interazioni ad esempio esistenti tra l’urbanistica, la pianificazione paesaggistica, la tutela dei beni storici e culturali, la salvaguardia idrogeologica, la protezione della natura e degli ecosistemi, la normativa antisismica, la tutela della salute, il benessere ed i diritti degli abitanti. Discipline semplicemente richiamate ma non coordinate ed integrate nel disegno di legge, che affronta unicamente i temi dell’uso del suolo a fini urbanistici e dell’edilizia, in netto contrasto con gli indirizzi e le direttive della Comunità europea che pongono al centro del governo del territorio i principi dello sviluppo sostenibile, della lotta ai cambiamenti climatici, della partecipazione dei cittadini e che quindi preliminarmente richiederebbero - come osserva Paolo Urbani, docente di Diritto Urbanistico all’Università di Roma - la definizione delle “invarianti territoriali” derivanti «… da una lettura sistematica degli equilibri sostenibili del territorio che delimiti a monte le condizioni complesse ed interrelate di trasformazione degli usi del territorio in rapporto alla sostenibilità degli usi dei beni pubblici quali l’acqua, l’aria, il suolo, la natura» (P. Urbani, 2005)

E’ d’altra parte lo stesso concetto di “territorio” sotteso dal disegno di legge sembra far unicamente riferimento alle sole realtà urbanizzate (o da urbanizzare), ignorando completamente la realtà dei sempre più diffusi arcipelaghi metropolitani, di un territorio rurale disseminato di capannoni e villettopoli, della assoluta e prioritaria necessità di contrastare la dispersione insediativa ed il consumo di suolo, non solo salvaguardando le residue oasi naturalistiche bensì anche promuovendo - compatibilmente con la tutela del paesaggio - le attività agricole nel territorio aperto ed all’interno stesso del territorio urbanizzato.

Ciò premesso non si può non osservare come larga parte dei principi e delle disposizioni del disegno di legge anziché proporre un aggiornamento ed un superamento in positivo della legislazione urbanistica vigente, ne scardinano alcuni dei presupposti fondamentali con prevedibili devastanti effetti su di un territorio ed un paesaggio già martirizzati. Proviamo ad analizzarne i principali.

1. In numerosi punti del disegno legislativo si attribuisce alla proprietà immobiliare un ruolo predominante nell’elaborazione dei piani urbanistici. Il comma 4° dell’articolo 1 stabilisce che «… ai proprietari degli immobili è riconosciuto, nei procedimenti di pianificazione, il diritto di iniziativa e di partecipazione, anche al fine di garantire il valore della proprietà conformemente ai contenuti della programmazione territoriale». L’intero articolo 8 è dedicato alla “tutela della proprietà”, stabilendo che «… il governo del territorio è regolato in modo che sia assicurato il riconoscimento e la garanzia della proprietà privata, la sua appartenenza ed il suo godimento» e che «… i proprietari hanno il diritto di partecipare alla determinazione dei contenuti della programmazione territoriale». Per contro assolutamente nulla si dice sul diritto dei cittadini a partecipare all’elaborazione dei piani e dei programmi di trasformazione urbana nonché sugli strumenti atti a garantire detto diritto.

Il testo proposto capovolge uno dei principi fondamentali della tradizione legislativa italiana ed europea, ovvero il principio della titolarità pubblica delle pianificazione del territorio. Certo si può sostenere che, pur spalancando le porte all’iniziativa ed alla partecipazione della proprietà immobiliare ai procedimenti di pianificazione, l’adozione ed approvazione dei piani spetta comunque in ultima istanza alla pubblica amministrazione. Ma, come scrive Luca De Lucia docente di Diritto amministrativo all’Università di Salerno, non è difficile comprendere che «… i processi regolativi e di elaborazione delle politiche pubbliche, specie allorquando intercettano interessi economici forti (quali sono indubbiamente quelli connessi alla rendita immobiliare), necessitano di strumenti giuridici ed istituzionali che mantengano l’amministrazione pubblica esente, per quanto possibile, da interferenze e condizionamenti indebiti, consentendole di assumere decisioni e di eseguirle autonomamente dal consenso dei privati interessi» (L. De Lucia, 2005).

Tanto più forte sarà il potere condizionante dei proprietari privati se, come previsto dall’articolo 10 del disegno di legge Lupi, fosse consentita - sull’esempio di quanto già avviene a Milano - la possibilità di estendere la “perequazione” a tutte le aree di trasformazione urbanistica (quella che Roberto Camagni ha efficacemente denominato come “perequazione sconfinata”), attribuendo ai proprietari privati dei “diritti edificatori” spendibili in altre aree urbane e liberamente commerciabili (art. 12, Trasferibilità e commercializzazione dei diritti edificatori), il che consentirebbe alle società immobiliari di farne incetta e di concentrarli su aree in loro disponibilità nelle quali richiedere al Comune l’adozione di appositi strumenti attuativi anche in variante alle previsioni di piano (vedi articolo 14, Accordi urbanistici).

2. L’articolo 6 del disegno di legge Lupi di fatto propone l’eliminazione degli standard urbanistici introdotti dal Decreto Ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444: una conquista delle lotte popolari di quegli anni volta ad assicurare in tutte le realtà locali quantità minime di servizi collettivi. Certo sono passati gli anni: i territori si sono profondamente trasformati e sono mutate le esigenze degli abitanti. Molto spesso gli standard, espressi in mq/abitante ed incrementati dalle leggi regionali successivamente intervenute, sono rimasti disegnati negli elaborati di piano e non si sono tradotti in servizi reali a causa di miopi gestioni amministrative o di oggettive difficoltà di bilancio dei Comuni. Ma sono sufficienti queste considerazioni per proporne tout court l’eliminazione e la sostituzione con non meglio precisate “dotazioni territoriali essenziali”, i cui livelli quantitativi e qualitativi andranno definiti in una futuribile Conferenza Stato Regioni?

Giustamente Alberto Magnaghi dell’Ateneo fiorentino e Anna Marson, assessore alla Pianificazione territoriale della Regione Toscana, sostengono che, lungi dall’essere eliminabili, gli standard urbanistici «… vanno al contrario arricchiti in molteplici direzioni che esplorino il passaggio dalla quantità alla qualità, all’equità, alla bellezza, all’inclusione». Una legge che pretende di definire i nuovi principi del “governo del territorio” dovrebbe dunque non semplicemente rinviare il problema a futuri provvedimenti di incerta formulazione, bensì stabilire precisi indirizzi e criteri unitari, esplicitando sotto quali aspetti integrare gli standard urbanistici attuali, ad esempio:
- verificandone la validità in una visione urbanistica e territoriale tendente all’integrazione delle funzioni ed al superamento dello zoning;
- modulandone i contenuti in relazione ai diversi contesti sociali e morfologici ed alle reti ecologiche esistenti nel territorio, anche al fine di contribuire alla salvaguardia e riproduzione dei fondamentali cicli ecologici ed alla lotta ai cambiamenti climatici (riduzione delle emissioni inquinanti e mitigazione degli effetti sui microclimi locali);
- coordinandoli con gli indicatori elaborati dalla Comunità europea e dall’ICLEI (sostenibilità ambientale, accessibilità ai servizi, salute, qualità paesaggistica…), anche al fine di consentire il monitoraggio degli effetti reali conseguiti da un punto di vista ambientale ed in relazione al benessere degli abitanti.

Alle problematiche degli standard urbanistici si deve necessariamente associare la questione degli oneri di urbanizzazione e della fiscalità immobiliare, ovvero di come i Comuni possano reperire le risorse atte a garantire la effettiva realizzazione delle opere pubbliche e dei servizi e quindi una adeguata qualità del vivere e dell’abitare.

Le trasformazioni urbane generano, anche per effetto delle reti infrastrutturali realizzate dagli enti pubblici, enormi plusvalori (rendite fondiarie) che nel nostro paese - contrariamente a quanto avviene in altri paesi europei - vanno a quasi totale beneficio dei privati. Dalle analisi comparative condotte da Roberto Camagni e da Maria Cristina Gibelli del Politecnico di Milano, risulta che dalla sola tassazione locale delle trasformazioni urbane in Germania l’Amministrazione pubblica ottiene da 4 a 6 volte di più di quanto non ottengano le nostre amministrazioni: risorse reinvestite per la realizzazione di opere e servizi di pubblica utilità.

Il conseguimento di una più equa ripartizione fra pubblico e privato dei plusvalori emergenti dalla trasformazione delle città è dunque una delle questioni centrali da affrontare nell’ambito di una riforma urbanistica. Come afferma Camagni «… vi è nel nostro paese ampio spazio per un aumento sostanzioso della parte di plusvalore che può restare nelle mani del partner pubblico, da realizzare attraverso aumenti degli oneri di urbanizzazione, che oggi spesso non coprono nemmeno i costi delle infrastrutture direttamente al servizio delle nuove costruzioni, e/o attraverso extra-oneri da concordare col partner privato in presenza di importanti progetti di trasformazione» (R. Camagni, 2013).

In questa direzione sembrava andare un articolo della prima stesura del disegno di legge Lupi (era l’articolo 14) che prevedeva, “a fronte di rilevanti valorizzazioni immobiliari generate dallo strumento urbanistico generale”, un contributo straordinario nella misura massima del 66 per cento, in funzione del maggior valore immobiliare conseguibile, da destinare appunto alla realizzazione di opere pubbliche o di interesse generale. Un articolo che - certo non casualmente - è stato soppresso nella versione definitiva del disegno di legge presentato il 24 luglio scorso.

3. L’articolo 7 affronta (almeno nel titolo) i temi della pianificazione comunale e della pianificazione d’area vasta. Per quanto concerne la scala comunale il disegno di legge si limita di fatto a recepire quanto già disciplinato da gran parte delle leggi urbanistiche regionali ovvero l’articolazione del piano regolatore generale in un piano di carattere programmatorio non avente efficacia conformativa della proprietà (normalmente definito Piano strutturale) da tradurre in una fase successiva in un piano di carattere operativo (nel quale, si ribadisce, possono essere accolte le proposte ed i progetti di programmi complessi presentati dai privati). Ciò che stupisce è che al piano strutturale venga attribuita esclusivamente una “efficacia conoscitiva e ricognitiva”, rendendolo di fatto ininfluente ai fini pratici delle gestione del territorio e delle salvaguardie ambientali, e comunque tale da poter essere completamente disatteso e stravolto dal piano operativo, che è poi quello in cui - come ricordato - maggiormente si può far sentire il peso degli interessi particolari. Non è difficile comprendere come tutto ciò prefiguri una “nuova” concezione dell’urbanistica, nella quale «… progetti e programmi pubblici e privati non sono tenuti a uniformarsi alle prescrizioni del piano regolatore ma, al contrario, è il piano regolatore che si deve adeguare ai progetti, diventando una specie di catasto dove si registrano le trasformazioni edilizie contrattate e concordate». (Vezio De Lucia, 2005).

Per altro verso appare sconcertante osservare quanto poco credito sia attribuito dal disegno di legge Lupi alla pianificazione d’area vasta. Al comma 9 dell’articolo 7 ci si limita infatti a richiedere che le Regioni incentivino «la pianificazione urbanistica intercomunale con l’approvazione di piani urbanistici che si estendono al territorio di più comuni», ma non si fornisce alcuna indicazione ed alcuno strumento per conseguire detto obiettivo.

Non si può a tal proposito non sottolineare come, in presenza di diffusi fenomeni di sprawl urbano che hanno generato sempre più estese conurbazioni metropolitane, sia oggi divenuto prioritario ed essenziale individuare e rendere obbligatoria l’adozione di nuovi più efficaci strumenti di piano a scala comprensoriale, superando la dimensione localistica dei piani regolatori comunali. E’ soprattutto a scala comprensoriale, in una visione policentrica degli insediamenti urbani e attraverso il potenziamento delle infrastrutture di trasporto collettivo, che si può realisticamente immaginare di porre un freno al consumo di suolo, con un equo e razionale decentramento dei principali servizi territoriali e con una valutazione condivisa dei reali fabbisogni abitativi in grado di evitare il sovradimensionamento dei piani dei singoli comuni. Ed è a questa scala che si possono ripensare città e campagna quali elementi costituenti un unico organismo unitario caratterizzato da una fitta rete di corridoi ecologici, da sistemi agricoli più sostenibili e da un proprio metabolismo che dovrà divenire sempre più di tipo circolare anziché lineare.

4. L’articolo 18 definisce l’edilizia residenziale sociale quale standard aggiuntivo nell’elaborazione dei piani: un servizio che può essere erogato sia da operatori pubblici che privati attraverso l’offerta di alloggi in locazione od il sostegno all’accesso alla proprietà della casa, «… perseguendo l’integrazione delle diverse fasce sociali, che potrà essere favorita dalla presenza di un equilibrato mix di funzioni». Una definizione condivisibile, che però non fa i conti con la drammatica realtà del nostro paese. In Italia l’edilizia popolare (quella che il disegno di legge Lupi definisce come ERPS - Edilizia Residenziale Pubblica Sociale) raggiunge a stento una percentuale del 4 per cento sul totale delle abitazioni, a fronte di una media comunitaria del 20 per cento (36 per cento in Olanda, 22 per cento in Gran Bretagna). Oltre 700.000 sono le domande inevase di case pubbliche, mentre si valuta che il fabbisogno di alloggi in affitto a canone sociale o calmierato (non superiore al 25 - 30 per cento del reddito familiare) coinvolga circa tre milioni di famiglie.

Il social housing, attualmente realizzato dai privati anche con agevolazioni pubbliche (ed a cui il disegno di legge, oltre alla riduzione o esonero dal contributo di costruzione, consentirebbe di usufruire del “permesso di costruire in deroga”), non risulta in grado di intercettare questa domanda. Dalle stime effettuate da Federcasa risulta infatti che il costo medio degli affitti realizzati dal social housing dei privati si aggira intorno agli 800 euro mensili, il che - come osserva Salvatore Lo Balbo della Sindacato edili della CGIL - equivale ad un reddito mensile complessivo di almeno 2600 euro, «… palesemente non accessibile ai lavoratori dipendenti, agli studenti, ai disoccupati, ai pensionati o alle false partite IVA» (S. Lo Balbo, 2014).

Tutto ciò dimostra come sia impossibile pensare di risolvere il problema abitativo, riguardante prevalentemente categorie di lavoratori a basso reddito, con la semplice incentivazione dei meccanismi di mercato e pone il problema, che affronteremo più estesamente nel punto successivo, della necessità di un rinnovato e consistente intervento pubblico nel settore dell’edilizia residenziale (eventualmente anche dando una diversa destinazione e finalizzazione a molti dei fondi già stanziati quali: gli oltre due miliardi previsti per l’edilizia sociale privata del Fondo Investimenti per l’Abitare, istituito nell’ottobre 2009 con il contributo della Cassa Depositi e Prestiti, del Ministero delle Infrastrutture e di diversi gruppi bancari ed assicurativi; gli 800 milioni del Piano Nazionale di Edilizia Abitativa di cui al Dpcm 16 luglio 2009; il miliardo e mezzo di fondi cosiddetti ex-Gescal a disposizione delle Regioni dal 2011; i fondi dei Programmi europei 2014-2020).

5. Il Titolo II ed in particolare l’articolo 16 del disegno di legge Lupi affronta il tema del “Rinnovo urbano” finalizzato alla «rifunzionalizzazione, valorizzazione e recupero del patrimonio e del tessuto esistente, delle periferie, delle aree dismesse e per il ripristino ambientale e paesaggistico delle aree degradate»: un tema ovviamente centrale se si vuole vincere la battaglia contro ogni ulteriore consumo di suolo, imponendo il drastico ridimensionamento delle abnormi previsioni di nuove espansioni urbane contenute nella quasi totalità dei piani regolatori comunali vigenti.

Una prima osservazione di merito riguarda il concetto stesso di “Rinnovo urbano”, troppo spesso nel passato associato ad operazioni di pura speculazione edilizia, altamente impattanti nei confronti della storia dei luoghi, del tessuto sociale preesistente, del paesaggio e dell’ambiente. Si dovrebbe, a nostro avviso, più correttamente utilizzare il concetto di “Rigenerazione urbana” od ancor meglio di “Rigenerazione urbana sostenibile”, promuovendo l’elaborazione e l’attuazione di programmi unitari, costruiti e gestiti in forma partecipata dalle comunità locali, in grado di integrare l’urbanistica e l’edilizia con politiche settoriali di diversa natura, quali quelle riguardanti il sistema della mobilità, la multifunzionalità e l’accessibilità ai servizi a scala urbana, il risparmio energetico e l’utilizzo di fonti rinnovabili, le connessioni ecologiche, nonché la riduzione delle emissioni inquinanti e la mitigazione degli effetti conseguenti ai cambiamenti climatici in atto, favorendo il benessere degli abitanti e l’inclusione sociale. Programmi e progetti coerenti con le strategie definite a monte dagli strumenti della pianificazione urbana e territoriale e non frutto di scelte estemporanee o dettate da interessi particolari quali quelle consentite ed in una certa misura incoraggiate dal comma 7 dell’articolo 16 del disegno di legge Lupi nel quale si stabilisce che «… le operazioni di rinnovo urbano possono essere realizzate anche in assenza di pianificazione operativa o in difformità della stessa, previo accordo urbanistico tra Comune e privati interessati alle operazioni».

In realtà la logica che sembra sottendere tutto l’articolato della legge Lupi, anche sul fronte del “Rinnovo urbano”, appare ancora una volta essere quella che per consentire la ripresa di un mercato dell’edilizia da anni in profonda crisi sia necessario e sufficiente eliminare ogni ulteriore laccio e lacciolo all’iniziativa privata. Al pubblico spetterebbe fondamentalmente solo un ruolo di incentivazione e di sostegno all’iniziativa privata, attraverso la riduzione degli oneri, agevolazioni fiscali, premialità volumetriche ed una sburocratizzazione dei procedimenti e dei controlli. Sembra del tutto sfuggire, a chi ha redatto il testo di legge, la reale natura della crisi attuale derivata proprio da un eccesso di fiducia nelle virtù taumaturgiche di un mercato privo di regole e da un un progressivo depotenziamento delle strutture di governance e delle capacità manageriali della pubblica amministrazione.

E’ in realtà difficile immaginare di poter uscire dalla crisi ed avviare una ripresa economica nel nostro paese utilizzando le stesse ricette che hanno generato la situazione attuale. In un interessante e documentato studio di recente pubblicazione (Lo stato innovatore) Mariana Mazzucato, docente di innovazione economica presso l’Università del Sussex in Gran Bretagna, osserva come i paesi europei più duramente colpiti dalla crisi siano quelli che hanno registrato minori investimenti pubblici in aree fondamentali per la crescita economica quali quelle della formazione del capitale umano, dell’adattamento alle nuove tecnologie, della ricerca e dello sviluppo e come anche negli Stati Uniti - considerati la nazione anti-statalista per eccellenza - il successo delle aziende più innovative in campo informatico e farmaceutico non vi sarebbe stato se non fosse stato preceduto da ingenti investimenti guidati dal settore pubblico. Solo il pubblico infatti può disporre di capitali “pazienti” in grado di sostenere investimenti strategici (mission-oriented) di lungo periodo in aree nuove e ad alto rischio d’insuccesso, non stimolati da una convenienza spicciola, ma dalla percezione di opportunità future: investimenti che possono orientare ed attrarre anche operatori e capitali privati, in un rapporto pubblico/privato di tipo simbiotico e non parassitario (evitando la socializzazione dei rischi e la privatizzazione dei guadagni e quindi garantendo anche al pubblico un congruo “profitto”).

Ma per avviare con successo un nuovo processo di crescita economica, sostiene sempre Mariana Mazzucato, non sono sufficienti gli investimenti pubblici “intelligenti”, serve anche una nuova visione del settore pubblico: un settore pubblico che non solo sostenga l’innovazione, ma che sia anche “innovativo al suo interno”, sviluppando competenze e spirito imprenditoriale, attirando individui di talento, evitando la frammentazione dei progetti e concentrando gli interventi nei settori strategici prioritari.

Mariana Mazzucato indica tra i settori in cui prioritariamente lo stato dovrebbe investire quelli della ricerca di base, delle nano-tecnologie, dell’informatica, dell’energia e delle tecnologie pulite. Non è però difficile cogliere le possibili analogie delle riflessioni della Mazzucato con le problematiche connesse all’avvio e alla realizzazione di complessi programmi di rigenerazione urbana. Anche in questo caso appare del tutto illusorio immaginare che vi siano - nell’attuale situazione di recessione ed in presenza di un elevatissimo stock di immobili invenduti sia di tipo residenziale che non residenziale - operatori privati disposti ad investire ingenti capitali in progetti dai tempi e dagli esiti incerti ed ancor più in progetti fortemente innovativi nell’uso delle risorse energetiche, delle tecnologie costruttive e dei materiali, in grado di riqualificare e rigenerare parti significative dell’organismo urbano coniugando gli aspetti edilizi con quelli sociali ed urbanistici. Anche in questo caso alla base del processo vi deve essere, da parte di una pubblica amministrazione rinnovata al proprio interno, la capacità di elaborare una chiara visione strategica delle trasformazioni urbane necessarie, un piano condiviso e regole precise, a cui devono corrispondere una adeguata programmazione delle risorse finanziarie pubbliche e private da impegnare e l’attivazione di efficienti strutture di progettazione e di gestione.

E’ questa, tra le altre, una delle ragioni di fondo che ci fa dubitare del fatto che abbia oggi un senso sprecare tempo e risorse intellettuali attorno ad un dibattito per molti aspetti puramente ideologico su di un progetto di legge che avrebbe la pretesa di definire nuovi fondamentali principi e nuove norme per l’urbanistica ed il “governo del territorio”, ma che in realtà si presenta come un incoerente insieme di norme arretrate dal punto di vista della cultura urbanistica e delle direttive comunitarie europee ed arretrate persino rispetto a molte delle leggi urbanistiche approvate in anni recenti dalle Regioni: norme che non forniscono alcun concreto strumento per uscire dall’attuale situazione di emergenza ambientale, economica e sociale.

Se realmente si vogliono affrontare le tematiche di un governo sostenibile del territorio, dello stop al consumo di suolo e della rigenerazione urbana, un buon punto di partenza può invece essere quello indicato dalla Conferenza nazionale degli Ordini degli Architetti tenutasi a Padova nello scorso mese di maggio, che in un documento di sintesi ha recepito e fatto propri i risultati di una serie di giornate seminariali di studio organizzate dalla Fondazione Barbara Cappochin a cui hanno partecipato alcuni dei principali protagonisti dei più interessanti interventi di rigenerazione urbana realizzati nel corso degli ultimi quindici anni in Svezia, Danimarca, Finlandia, Germania, Francia e Italia (si veda la pubblicazione Eco-quartieri: Strategie e tecniche di rigenerazione urbana in Europa, Marsilio editore).

Il documento, predisposto dal Comitato scientifico organizzatore degli incontri seminariali ed approvato dalla Conferenza degli Ordini degli architetti, parte dalla considerazione che per avviare politiche di rigenerazione urbana all’altezza dei tempi, in grado di promuovere una nuova stagione di interventi finalizzati all’inclusione sociale, alla riqualificazione ecologica ed ambientale degli spazi urbani e dei territori metropolitani, alla mobilità sostenibile, alla messa in sicurezza ed alla riabilitazione energetica del patrimonio edilizio, in una fase quale quella attuate caratterizzata da stagnazione e declino economico, appare assolutamente necessario rilanciare gli investimenti pubblici concentrando le risorse nelle situazioni di maggior disagio, rimettere quanto prima ordine nella caotica sovrapposizione di norme e provvedimenti oggi in vigore, ma soprattutto deve essere definito un quadro legislativo di riferimento chiaro nelle finalità, che offra strumenti giuridici adeguati a superare gli ostacoli determinati dall’attuale frammentazione della proprietà immobiliare e che strategicamente garantisca un flusso costante di finanziamenti, da attribuirsi secondo criteri trasparenti e con precise priorità, necessari ad innescare programmi nei quali - con la regia degli enti locali - convergano risorse sia pubbliche che private.

Una disciplina organica che consenta di superare l’attuale governo frammentario e settoriale delle politiche urbane, integrando i diversi aspetti sociali, economici ed ambientali che devono caratterizzare uno sviluppo realmente sostenibile.

Un quadro legislativo che, sull’esempio della Francia, definisca chiaramente le competenze dei diversi organi istituzionali ed i rapporti di collaborazione che devono intercorrere tra settori e livelli dell’amministrazione pubblica, nella convinzione che - pur nel rispetto delle autonomie locali - sia oggi necessario dar vita ad una agenzia nazionale, articolata a livello regionale, di supporto tecnico e di verifica per l’attuazione nei tempi programmati degli interventi di rigenerazione urbana.

Sulla base di dette considerazioni il documento approvato dalla Conferenza nazionale degli Ordini degli Architetti ritiene urgente la predisposizione di una legge di programmazione per molti aspetti analoga a quella che fu la legge n. 457/1978, anche se certo oggi l’accento va posto su problematiche più complesse rispetto a quella allora centrale del fabbisogno abitativo. Una legge che concentrando e razionalizzando l’uso delle risorse finanziarie pubbliche per interventi fortemente innovativi in ambito urbano, sia in grado di fungere da volano per una più generale ripresa degli investimenti privati e delle attività economiche nel nostro paese.

Un Programma pluriennale per la Rigenerazione Urbana Sostenibile in Italia

Una nuova legge di programmazione dovrebbe in primo luogo definire le finalità dei programmi di rigenerazione urbana, favorendo l’integrazione delle politiche settoriali promosse dai diversi ministeri e dalle Regioni ed il coordinamento delle risorse finanziarie messe a disposizione dallo stato con quelle della programmazione comunitaria europea. Tra le finalità generali un aspetto oggi centrale è senza dubbio costituito dalla necessità di evitare ogni ulteriore consumo di suolo, attraverso una coerente pianificazione urbana e territoriale che privilegi il recupero statico, energetico, funzionale ed architettonico del patrimonio edilizio esistente, che salvaguardi il territorio rurale e le attività agricole anche in ambito urbano e che localizzi preferenzialmente gli interventi in prossimità delle reti del trasporto collettivo.

I programmi di rigenerazione urbana predisposti dai Comuni, o dalle associazioni di più Comuni, per poter essere ammessi a finanziamento dovranno dunque risultare parte integrante di una più ampia visione dello sviluppo della città e del contesto territoriale, di un più generale progetto di miglioramento della qualità della vita dei cittadini e di riconversione ecologica dell’organismo urbano, che tenda alla chiusura dei cicli naturali relativi all’energia, all’acqua, all’alimentazione, alla riduzione del consumo di materie prime e dell’inquinamento, alla raccolta differenziata ed al riciclo dei rifiuti, alla lotta ai cambiamenti climatici ed alla mitigazione dei loro effetti (resilienza urbana). Dovrà quindi essere dimostrata la coerenza tra i programmi riguardanti specifici quartieri ed aree urbane e gli strumenti della pianificazione urbanistica, con una attenta valutazione delle ricadute sociali ed ambientali in ambiti territoriali più estesi.

In particolare, poi, i programmi di rigenerazione urbana dovranno essere caratterizzati da una elevata qualità degli spazi pubblici e dei servizi progettati e da una accentuata mixitè funzionale e sociale, integrando all’interno dello stesso quartiere residenza, attività lavorative, servizi sociali e commerciali e prevedendo una quota minima di edilizia sociale con caratteristiche spazialmente e tipologicamente non discriminanti al fine di evitare la segregazione territoriale e sociale. Parte integrante dei programmi saranno altresì le azioni ed i provvedimenti specificamente finalizzati allo sviluppo di nuove economie e di nuova occupazione, alla sicurezza sociale ed al superamento delle disuguaglianze sociali, garantendo a tutti gli abitanti l’accesso ai fondamentali diritti di cittadinanza. Essenziale a questo fine è anche promuovere e rendere istituzionale la partecipazione attiva degli abitanti alla progettazione e gestione dei programmi d’intervento (Forum di quartiere ai quali andranno attribuiti poteri effettivi di indirizzo e di controllo e di cui siano assicurate l’autonomia ed indipendenza di fronte ai poteri pubblici). Con la partecipazione degli abitanti sarà d’altra parte possibile conservare la memoria storica e l’identità dei quartieri valorizzandone il patrimonio di relazioni sociali formatesi nel corso degli anni.

Nella valutazione e selezione dei programmi ne andranno inoltre considerati gli aspetti più innovativi e sperimentali, di tipo tecnologico, tipologico, sociale e procedurale, precisandone le modalità di monitoraggio e verifica dei risultati ed evidenziandone la riproducibilità in contesti diversi e l’utilità ai fini dell’aggiornamento legislativo e normativo nazionale e regionale.

Per quanto concerne la ridefinizione delle competenze, fermo restando che i programmi dovranno essere predisposti e presentati dalle amministrazioni locali e che la titolarità e responsabilità degli stessi dovrà essere dei Sindaci o delle associazioni di Comuni, è fondamentale che a livello governativo vi sia chiarezza su quale Ministero debba assumersi la responsabilità di un Coordinamento Interministeriale per le Politiche Urbane, vera e propria cabina di regia in grado di tradurre in provvedimenti operativi i programmi pluriennali e le linee di indirizzo di volta in volta definite. Una cabina di regia che dovrà definire i criteri sociali, demografici, economici e ambientali da utilizzarsi per l’individuazione a scala nazionale dei quartieri e delle aree urbane su cui prioritariamente intervenire e nei quali prioritariamente concentrare le risorse finanziarie gestite dai diversi Ministeri competenti per specifiche politiche di settore (Infrastrutture e trasporti, Ambiente, Economia e Finanze, Sviluppo Economico, Istruzione, Università e Ricerca, Lavoro e Politiche Sociali). Al Coordinamento Interministeriale spetterà inoltre la definizione del quadro di riferimento e degli indirizzi generali dei Contratti di Rigenerazione Urbana, di durata non superiore al quinquennio, da sottoscrivere con gli enti locali, nonché dei criteri atti a verificare la coerenza dei progetti presentati dagli enti locali con le finalità generali del Programma nazionale.

Per superare i tradizionali vincoli burocratici delle nostre amministrazioni e rendere più snelle le procedure è d’altra parte auspicabile che, sull’esempio della Francia, venga costituita una apposita Agenzia Nazionale per la Rigenerazione Urbana Sostenibile, finalizzata a collaborare con il Comitato Interministeriale per la selezione a livello nazionale e regionale dei siti in cui intervenire (con incentivi e speciali misure premiali per le associazioni di Comuni), a fornire alle comunità locali il supporto tecnico ed operativo necessario per la progettazione e realizzazione degli interventi, a definire gli impegni finanziari dei diversi partner pubblici e privati garantendo la disponibilità dei finanziamenti in tempi certi. Tra i compiti dell’Agenzia vi dovranno anche essere quelli di contribuire alla formazione delle equipe incaricate di implementare gli aspetti sociali ed economici degli interventi e di attivare i processi partecipativi, nonché di monitorare, verificare e certificare la qualità dei progetti sulla base di appositi indicatori ed il rispetto della tempistica.

Nell’ambito della legge di programmazione andranno definiti nuovi, più efficaci strumenti giuridici in grado di consentire interventi estesi a comparti urbani caratterizzati - come spesso avviene - da una situazione proprietaria frazionata ed andranno precisati condizioni e parametri di riferimento atti ad assicurare l’effettivo interesse pubblico nelle relazioni tra enti pubblici, banche e società private e/o nella costituzione di società miste pubblico-private finalizzate alla progettazione e realizzazione di interventi di trasformazione urbana (criteri di di selezione degli operatori privati, regole perequative e compensative…).

Infine, oltre ad indicare le risorse finanziarie del bilancio statale e dei programmi comunitari europei utilizzabili per l’attuazione del programma pluriennale, riteniamo sarebbe importante che la legge favorisse la promozione di nuovi strumenti finanziari in grado di attirare gli investimenti privati (fondo di rotazione, raccolte obbligazionarie di scopo, fondo di solidarietà per la realizzazione di alloggi sociali, forme di micro-credito…).

E’ di questa legge di programmazione (congiuntamente ad una legge che affronti seriamente il tema del consumo di suolo) che il nostro paese ha urgente bisogno, piuttosto che di una pasticciata ed approssimativa legge urbanistica che peggiora la legislazione esistente. Tanto più in considerazione del fatto che il disegno di legge Lupi rinvia ad una futura Direttiva Quadro Territoriale (denominata DQT) la definizione degli “obiettivi strategici di programmazione dell’azione statale” e la definizione degli strumenti e degli “indirizzi di coordinamento” tra lo stato, le regioni e gli enti locali, che pure dovrebbero costituire elemento essenziale del provvedimento legislativo. Una Direttiva per la cui stesura si prevede una delega in bianco al Governo sottraendone la competenza al Parlamento.

3 settembre 2014
Sergio Lironi è Presidente onorario di Legambiente Padova

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