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Tomaso Montanari
Valle, non tutto è da buttare
13 Agosto 2014
Il titolo con cui

Il Fatto ha pubblicato l' articolo ci sembra fuorviante. In realtà del Valle non c'è quasi niente da buttare; nell'articolo si scrive invece del possibile futuro del Teatro Valle e, soprattutto, dell'insegnamento che dalla vicenda dell'occupazione può trarsi perchè «la Repubblica [sia] un po' più res publica». Il Fatto quotidiano, 13 agosto 2014

Se la storia del Teatro Valle occupato sia finita bene o male, saranno i prossimi mesi a dirlo. Lo si vedrà dalla convenzione, che si scriverà dal due settembre, tra Teatro di Roma e Fondazione del Teatro Valle Bene Comune; e dal calendario dei lavori che la Soprintendenza potrebbe dovervi effettuare. Dalla prima si capirà se e quanto l’esperienza di questi tre anni sarà messa a frutto. Dal secondo si capirà, più concretamente, se l’amministrazione comunale di Roma e il Ministero per i beni culturali sono in buona fede, o se invece pensano di cancellare financo la memoria del Valle Occupato, chiudendo il teatro a doppia mandata e buttando la chiave fino a nuovo ordine. Quando (dopo oltre un anno di afasia) la giunta di Ignazio Marino ha finalmente capito che bisognava affrontare il caso Valle, lo ha fatto in modo schizofrenico.

Da una parte – cito un comunicato ufficiale del comune – “Roma Capitale e il Teatro di Roma hanno riconosciuto il percorso culturale e artistico compiuto dagli artisti della Fondazione dal 2011 e assicurato l’avvio di un progetto condiviso che ne salvaguardi i migliori risultati e le esperienze realizzate nella logica di un teatro partecipato anche dalle associazioni e dagli artisti attivi nella città di Roma”.

Dall’altra, però, il Comune ha lanciato un ultimatum sull’uscita dal Valle (prima fissata al 31 luglio, poi spostata al 10 agosto) e contemporaneamente dichiarato di non essere in grado di scrivere la convenzione in pieno agosto. Come dire, intanto uscite e poi fidatevi di noi: il che sembrava fatto apposta per ingenerare sospetti. Tanto più che ufficialmente l’urgenza era dettata dall’“improcrastinabilità” (così il Comune) dei lavori. Una balla colossale, come è emerso durante la trattativa: la Soprintendenza non aveva fatto nemmeno un sopralluogo, e dunque non c’è né un progetto né un finanziamento. E come chiunque avrebbe potuto vedere lunedì mattina (specie se la prefettura non avesse irresponsabilmente staccato la luce durante il sopralluogo dei giornalisti, in un’inutile prova di muscolarità di tipo cileno), in questi tre anni il Teatro è stato tenuto come uno specchio, ed davvero l’ultimo monumento ad aver bisogno di interventi, in un patrimonio invece largamente cadente.

Ma l’evocazione del Ministero per i Beni culturali (che è proprietario dell'immobile, in gestione al Comune) un elemento di verità ce l'aveva: ed era lo svelamento del vero convitato di pietra della trattativa, ovvero del mandante dello sfratto. Che è stato il ministro Dario Franceschini, in palese difficoltà con Renzi (che ha per ora bocciato la sua riforma del Mibact), e dunque ansioso di deporre ai suoi piedi il topolino esanime del Valle “liberato”.

In ogni caso, i comunardi del Valle hanno fatto buon viso a cattivo gioco. Hanno scelto la strada stretta di un futuro da costruire pezzo a pezzo invece del narcisismo sterile di un conflitto senza speranze. Questo va interamente a loro merito. E a merito di Marino Sinibaldi, che ha condotto la trattativa come direttore del Teatro di Roma. Sinibaldi ce l’ha fatta perché si vedeva che il suo interesse per il Valle non era strumentale, ma genuinamente culturale; perché sa che le istituzioni hanno un drammatico bisogno di farsi educare dai movimenti, e perché sa che il Teatro di Roma ha bisogno dell’energia del Valle Occupato (pluripremiato in Italia e in Europa per la qualità del suo lavoro) almeno quanto è vero il contrario.

Proprio in questa consapevolezza stanno le ragioni della speranza. Negli ultimi decenni, anche in campo culturale le pubbliche amministrazioni hanno creato società e agenzie che permettessero di agire secondo procedure, e non di rado anche con finalità, di tipo privatistico (si pensi ad Arcus; o a Zétema, per restare a Roma). Qua si tratta di avviare un processo perfettamente speculare: studiare il modo in cui sia possibile che le istituzioni pubbliche ospitino al loro interno un modo più radicale (e dunque meno commerciale e meno lottizzato) di essere “pubblico”. Si tratta di portare dentro ad un teatro pubblico un modo di fare, produrre, condividere teatro ispirato alla filosofia dei beni comuni. Se ci saranno abbastanza onestà intellettuale, fantasia e tenacia per farlo davvero, allora la storia del Valle Occupato sarà finita bene. E la Repubblica sarà un po' più res publica.

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