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Giovanni Bianconi
Gli operai dei Casalesi per lavorare pagavano il pizzo con il bancomat
27 Giugno 2014
Articoli del 2014
«Il sistema orchestrato dagli indagati ha anche alterato profondamente le regole della concorrenza ed ha inquinato sensibilmente il settore della ricostruzione privata».

«Il sistema orchestrato dagli indagati ha anche alterato profondamente le regole della concorrenza ed ha inquinato sensibilmente il settore della ricostruzione privata».

Corriere della sera, 26 Giugno, 2014 (mpr)

L’Aquila — Gli incontri avvenivano al Casinò di Venezia, una o due volte al mese. Lì l’imprenditore cinquantacinquenne di origini casertane Alfonso Di Tella, da anni trapiantato in Abruzzo, discuteva con Aldo Nobis, fratello di Salvatore Nobis detto «Scintilla» per la particolare abilità nel far saltare in aria negozi e uffici di chi si rifiutava di pagare il «pizzo» ai Casalesi, «braccio armato ed affiliato del sodalizio di Michele Zagaria» oggi rinchiuso al «carcere duro»; oppure con Raffaele Parente, imprenditore imparentato con esponenti di spicco del clan campano, sfuggito a un agguato di camorra. In più di un’occasione, gli investigatori della Guardia di finanza hanno visto Nobis consegnare fiches dal valore di migliaia di euro alla fidanzata rumena di Di Tella, che le riponeva nella borsetta.

Situazioni e circostanze che hanno convinto i magistrati della Direzione distrettuale antimafia dell’Aquila, guidata dal procuratore Fausto Cardella, a ritenere Di Tella uno dei tentacoli imprenditoriali dei Casalesi allungatosi sulla ricostruzione del dopo-terremoto in Abruzzo. Il meccanismo è lo stesso accertato in un’altra recente indagine, condotta dalla polizia, sulla ristrutturazione delle chiese danneggiate dal sisma: infilarsi nella riparazione degli edifici privati, pagata con sovvenzioni pubbliche ma affidata senza gare e senza alcun controllo. In questo modo un paio di ditte aquilane si sono assicurati i lavori su una decina di immobili (per un valore complessivo di altrettanti milioni), successivamente sub-appaltati a Di Tella il quale si occupava di recuperare manodopera a basso costo, di origine straniera e campana; gli stessi operai erano poi costretti a restituire a Di Tella una quota degli stipendi, realizzando — secondo gli inquirenti — un’estorsione in piena regola, aggravata dal favoreggiamento della camorra. Di qui l’arresto eseguito ieri di Di Tella, suo fratello Cipriano e suo figlio Domenico, oltre a quattro imprenditori aquilani, accusati di «intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro», ciò che normalmente viene definita «caporalato».
Gli operai venivano reclutati in Campania e trasportati all’inizio di ogni settimana all’Aquila, alloggiati in camerate da venti posti con i letti a castello, e regolarmente pagati dalle imprese aquilane per cui risultavano assunti. Solo che poi una parte dei salari, in particolare le quote relative al Tfr e alla cassa mutua edile, venivano riversate dagli stessi lavoratori a Di Tella. Una sorta di «pizzo» preteso dall’imprenditore amico dei Casalesi che teneva una contabilità parallela per ciascun operaio, grazie alle copie delle buste paga che gli imprenditori locali gli consegnavano di mese in mese.
Sono alcune frasi pronunciate dallo stesso Di Tella nelle conversazioni intercettate dalla Finanza a confermare il modus operandi stigmatizzato così dal giudice che ha ordinato gli arresti: «Il sistema orchestrato dagli indagati, oltre a creare un intero settore economico nel quale è riscontrabile un pesante sfruttamento dei lavoratori, ha anche alterato profondamente le regole della concorrenza ed ha inquinato sensibilmente il settore della ricostruzione privata». Inoltre, «attraverso l’opera dei Di Tella, il clan casalese di Michele Zagaria si presenta sul territorio di riferimento come soggetto in grado di garantire concrete e rapide opportunità di lavoro».
Parlando con un amico, Di Tella spiega i rapporti con la manodopera costretta a versargli una quota dello stipendio: «Gli operai miei tutti quanti lo sanno! Quello che è il vostro è il vostro, ma quello che è mio è mio! Non me ne fotte proprio!... A luglio arriva la cassa edile: me la date!... Chi si lamenta se ne può pure andare». In un’altra intercettazione Di Tella spiega che gli operai erano tenuti a versargli la quota dovuta non appena ricevevano l’accredito sul conto corrente, prelevando subito i contanti: «Ti trovi? Tu 1.100 euro per giovedì li prendi a me... al bancomat...»; le indagini condotte dal pubblico ministero David Mancini e dalle Fiamme gialle hanno accertato che quel giorno l’operaio indicato dall’imprenditore ha fatto un prelievo corrispondente alla cifra indicata e ritrovata sulla contabilità parallela di Di Tella. Il quale poi andava ad incontrare personaggi contigui ai Casalesi al Casinò di Venezia, indicato dal pentito di camorra Raffele Piccolo come uno dei luoghi «utilizzati per riciclare denaro proveniente dall estorsioni, tramite il cambio di assegni».
Per il procuratore nazionale antimafia Roberti, l’indagine aquilana è «una nuova dimostrazione esemplare di come talune imprese legate ai Casalesi riescono a infiltrarsi in alcune aree attraverso l’imprenditoria apparentemente pulita. La vera forza delle mafie sta fuori dalle mafie, nella zona grigia che le circonda».

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