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Tonino Perna
Reggio-Messina, la metropoli dello Stretto
10 Aprile 2014
Altre città
Prosegue l'analisi del

Prosegue l'analisi del manifesto sulle cittàitaliane. Dopo Milano (7 febbraio), Sassari(13 febbraio), Venezia (20 febbraio),Napoli (27 Febbraio), Avellino (6 marzo), Bologna (13 marzo), Parma (20marzo 2014) Roma(27 marzo), Firenze (3 aprile) due città di frontiera che vogliono diventareuna: la più grande del Mezzogiorno. Prossimamente Torino e Cagliari, 10 aprile 2014

Tra la punta dello sti­vale e la Sici­lia c’è un tratto di mare, di poco più di tre chi­lo­me­tri che alcune volte diventa un lago salato, facile da attra­ver­sare con una pic­cola barca a remi, ma anche a nuoto come avviene ogni anno il 15 ago­sto e a Capo­danno per un antica tra­di­zione. Altre volte que­sto mare si agita, ha le con­vul­sioni, solo le grandi navi por­ta­con­tai­ner rie­scono a pas­sare men­tre le due rive si allon­ta­nano, l’Aspromonte scom­pare dalla vista dei mes­si­nesi e un’ombra scura sulla costa sici­liana impe­di­sce ai reg­gini di vedere Zan­kle, Mes­sene, Messina.

Reg­gio e Mes­sina, città sorelle e, a volte, acer­rime nemi­che, hanno vis­suto nel corso della sto­ria le stesse cata­strofi natu­rali (più di venti terremoti/maremoti cata­stro­fici di cui i più recenti sono stati il 1783 e il 1908) che ne hanno segnato la memo­ria e l’identità, ma hanno anche intrec­ciato e mesco­lato le popo­la­zioni delle due sponde, le cul­ture e i riti reli­giosi, la gastro­no­mia e il dia­letto. Reg­gio è la meno cala­brese delle città della Cala­bria così come Mes­sina è la meno sici­liana: sono città di fron­tiera, rispetto a Palermo e Catan­zaro, i capo­luo­ghi regio­nali. Appar­ten­gono allo Stretto, a que­sto pae­sag­gio unico al mondo, carico di miti anti­chi quanto la nostra civiltà, di feno­meni natu­rali straor­di­nari (come la fata Mor­gana), di uno sky­line armo­nioso e sug­ge­stivo che solo la fol­lia dello svi­lup­pi­smo delle grandi opere voleva detur­pare e distrug­gere con la costru­zione del farao­nico Ponte. Un’opera voluta anche dai sici­liani e cala­bresi che vivono lon­tano dallo Stretto e vedono que­sto tratto di mare come un osta­colo, una per­dita di tempo, per­ché non sanno godere di que­sto spet­ta­colo perenne che uni­sce le due città, come la vite che s’intreccia all’ulivo.

Rico­struite dopo il ter­ri­bile ter­re­moto del 1908, il più deva­stante al mondo per numero di morti (oltre 100.000) durante il secolo scorso, le due città hanno seguito tra­iet­to­rie diverse sul piano socio-economico. Durante il fasci­smo che rea­lizzò velo­ce­mente la rico­stru­zione, Mes­sina ebbe un ambi­zioso piano urba­ni­stico (piano Borzì) e cospi­cui finan­zia­menti da parte del governo fasci­sta per via degli stretti rap­porti del suo arci­ve­scovo con il duce. La città fu ridi­se­gnata con grandi viali, ampie piazze, e grandi edi­fici pub­blici in stile fasci­sta, non­ché palazzi e ville nobi­liari in stile liberty. Fino alla seconda guerra mon­diale il porto di Mes­sina aveva un ruolo impor­tante nell’esportazione di vino e agrumi sici­liani (in par­ti­co­lare i limoni, il 90% dell’export nazio­nale di que­sto agrume), del legname dell’Aspromonte, della seta pro­dotta a Villa San Gio­vanni e delle essenze di ber­ga­motto pro­dotte a Reg­gio. Aveva inol­tre delle fab­bri­che di essenze agru­ma­rie e tes­sili e altre indu­strie create da impren­di­tori stra­nieri e locali. Divisa tra due forti mas­so­ne­rie, una laica-mazziniana e l’altra cat­to­lica, la città espri­meva un livello cul­tu­rale molto più alto della media delle altre città del Mez­zo­giorno anche gra­zie alla pre­sti­giosa Uni­ver­sità nata nel XV secolo, una delle più anti­che del nostro Sud.

Di con­tro, Reg­gio era una pic­cola città-fortezza, dise­gnata intorno al castello ara­go­nese del XV secolo. Fu rico­struita sulla stessa strut­tura urba­ni­stica pre-terremoto, solo più in alto per­ché era stato il mare­moto a fare il mag­gior numero di vit­time. La sua ric­chezza non veniva dal mare, ma dall’entroterra e il potere era in mano a una deca­dente nobiltà e a una pic­cola bor­ghe­sia com­mer­ciale. Ma, aveva una grande fonte di ric­chezza e di lavoro: la lavo­ra­zione del ber­ga­motto, le cui essenze hanno costi­tuito la base dell’industria cosme­tica fino a quando, nel 1954, non è stato tro­vato un sosti­tuto chimico.

Dagli anni ’50 del secolo scorso le due città subi­rono un pro­gres­sivo pro­cesso di dein­du­stria­liz­za­zione, di per­dita del rap­porto pro­dut­tivo con le pro­prie risorse, di cre­scente peso della pub­blica ammi­ni­stra­zione e della spesa assi­sten­ziale. Un feno­meno che è stato comune alla gran parte delle regioni meri­dio­nali, dove solo dal 1951 al 1971 l’industria mani­fat­tu­riera ha fatto regi­strare un saldo nega­tivo di 17.525 unità a fronte di un aumento di 144.130 unità che si regi­stra nel Centro-Nord . È un pro­cesso di dein­du­stria­liz­za­zione che col­pi­sce la Pmi meri­dio­nale e porta ad una dele­git­ti­ma­zione del mer­cato capi­ta­li­stico. Il ven­ten­nio dello svi­luppo eco­no­mico ita­liano è stato il ven­ten­nio della deser­ti­fi­ca­zione pro­dut­tiva nel Mez­zo­giorno, che non ha retto alla pro­gres­siva glo­ba­liz­za­zione dei mer­cati, e ha pro­dotto un vuoto socio-economico e poli­tico che altri sog­getti hanno riempito.

A Mes­sina, la crisi pro­dut­tiva e occu­pa­zio­nale è stata in parte sosti­tuita dalla spesa pub­blica e la cre­scita abnorme delle pub­bli­che isti­tu­zioni: Comune, Pro­vin­cia, Ospe­dale, Poli­cli­nico, Uni­ver­sità. Alla bor­ghe­sia pro­dut­tiva e libe­rale (a Mes­sina nel 1948 il Par­tito libe­rale prese il 14%, un record in Ita­lia) si è andata sosti­tuendo la bor­ghe­sia sta­tale, i buro­crati e i poli­tici che inter­cet­ta­vano i flussi cre­scenti di spesa pub­blica. La crisi pro­fonda della città ini­zia negli anni ’70 del secolo scorso e segue la para­bola della spesa pub­blica. Il suo declino è inar­re­sta­bile, ma lento, sor­dido, non suscita rea­zioni, tanto da con­fer­mare l’ingiuria per i mes­si­nesi di essere dei bud­daci, cioè pesci che stanno a bocca aperta, par­lano tanto, ma non com­bi­nano niente. La cor­ru­zione, l’incapacità, la man­canza di una cit­ta­di­nanza attiva, fanno sì che la città con­ti­nui a spe­gnersi len­ta­mente, con brevi ritorni di fiamma come accadde nel periodo 1994-‘98 durante la giunta Pro­vi­denti. Un’eccezione in oltre quarant’anni di decadenza.

Dall’altra parte dello Stretto il crollo nelle ven­dite delle essenze di ber­ga­motto e delle arance (per via della con­cor­renza spa­gnola), fonti pri­ma­rie di ric­chezza della città, venne solo in parte com­pen­sato dalla cre­scita della spesa pub­blica. Il crollo della nobiltà lati­fon­di­sta, della bor­ghe­sia com­mer­ciale, non trovò un sog­getto sociale capace di ege­mo­nia fin­ché non scop­piò la guerra per il Capo­luogo nel 1970. Durò quasi un anno e fu l’ultima rivolta popo­lare di massa del Mez­zo­giorno, su cui si inse­ri­rono inte­ressi esterni legati alla stra­te­gia della ten­sione, e si sal­da­rono i rap­porti tra Mas­so­ne­ria, ser­vizi segreti e ‘ndran­gheta. Ma, la gente che era scesa in piazza e che morì o fu ferita e arre­stata aveva, oltre l’orgoglio di appar­te­nenza, l’obiettivo di com­bat­tere per gli unici posti di lavoro cre­di­bili: quelli della pub­blica ammi­ni­stra­zione. Men­tre la sini­stra, Pci in testa, par­lava di fab­bri­che e indu­stria­liz­za­zione, la popo­la­zione cre­deva solo al Capo­luogo come fonte d’occupazione e di red­dito. Que­sta rivolta segnò una cesura sto­rica netta: la vio­lenza della repres­sione gover­na­tiva, l’azzeramento della classe poli­tica demo­cri­stiana, portò a un vuoto totale di potere e di lega­lità che durò molti anni. Crebbe allora l’abusivismo edi­li­zio, fino a quel momento mar­gi­nale, fino a dar vita nei decenni suc­ces­sivi, alla costru­zione del 90 per cento di case abu­sive. Intorno al cen­tro sto­rico la città è cre­sciuta come uno ster­mi­nato e informe agglo­me­rato di case man­gian­dosi la cam­pa­gna un tempo lus­su­reg­giante. Ma, soprat­tutto, emerse con forza il ruolo ege­mone della bor­ghe­sia mafiosa com­po­sta da pro­fes­sio­ni­sti, impren­di­tori, poli­tici e il brac­cio armato di quella orga­niz­za­zione che si chiama ‘ndran­gheta, diven­tata la più potente delle mafie. Senza Stato, né Mer­cato, Reg­gio divenne un labo­ra­to­rio per la via cri­mi­nale all’accumulazione capi­ta­li­stica che si è dif­fuso in tutto il mondo.

Nel nuovo secolo lo sce­na­rio socio-politico dell’area dello Stretto appa­ren­te­mente non cam­biò. Mes­sina con­ti­nuò nel suo declino e passò da un Com­mis­sa­ria­mento del Comune all’altro, per cor­ru­zione, dis­se­sto finan­zia­rio o sem­plice caduta della giunta comu­nale. Reg­gio, che aveva vis­suto un pic­colo momento di rina­scita (la cosid­detta «Pri­ma­vera reg­gina» del com­pianto sin­daco Italo Fal­co­matà), ricadde nello scon­forto e finì nelle mani di un abile poli­tico, già lea­der del Fronte della Gio­ventù, che si inventò il modello Reg­gio: spesa pub­blica a go-go per spet­ta­coli e diver­ti­menti, clien­te­li­smo sfre­nato e bilan­cio comu­nale truc­cato e fuori controllo.

Negli ultimi anni la sto­ria delle due città ha subito un’accelerazione e una svolta impre­ve­di­bile. Il bello della vita è que­sto: quando non ti aspetti più niente, quando sem­bra che non ci siano più spe­ranze, quando sei rat­tri­stato da una gior­nata carica di nuvole, piog­gia e vento, improv­vi­sa­mente un rag­gio di luce appare sullo Stretto e cam­bia la tua visione, la tua per­ce­zione del futuro.

A Reg­gio il modello Sco­pel­liti è finito nelle mani della magi­stra­tura, men­tre la città lan­gue sotto il peso di un lungo Com­mis­sa­ria­mento inca­pace di risol­vere il dis­se­sto finan­zia­rio dovuto alle pas­sate ammi­ni­stra­zioni. È una città in fuga, dove par­tono non solo i lau­reati ma tutti quelli che pos­sono, e la stessa bor­ghe­sia mafiosa ha smesso di inve­stire da anni, spo­stando i capi­tali verso il Nord Ita­lia e le aree più ric­che del mondo. Quasi ogni notte una bomba sve­glia gli abi­tanti (l’ultima pro­prio al lato della pre­fet­tura) e sono ripresi gli omi­cidi mafiosi, dopo una lunga pax seguita al «Trat­tato» del 1992 in cui i capi­clan posero fine alla guerra di ‘ndran­gheta che costò set­te­cento omi­cidi in sette anni.

A Mes­sina, nes­suno se lo aspet­tava o ci avrebbe scom­messo un euro, nelle ele­zioni comu­nali del giu­gno scorso ha vinto la lista civica di Renato Acco­rinti, mili­tante paci­fi­sta, eco­lo­gi­sta e lea­der del movi­mento No Ponte. Una figura di sin­daco che ha stu­pito l’Italia interna e non solo, e che è il frutto di una improv­visa rivolta della città al malaf­fare e alla bor­ghe­sia paras­si­ta­ria che l’ha gover­nata per decenni. La giunta Acco­rinti, com­po­sta da tec­nici social­mente impe­gnati, ha un pro­gramma ambi­zioso di riscatto della città e in pochi mesi ha già segnato un visi­bile cam­bia­mento (Renato Acco­rinti è il sin­daco più amato dagli ita­liani secondo l’ultimo son­dag­gio Ipsos). Ma, il fatto isti­tu­zio­nal­mente più rile­vante è la volontà di que­sta giunta di costruire la città metro­po­li­tana dello Stretto, unendo Reg­gio e Mes­sina e i Comuni limi­trofi. Diver­rebbe la terza città del Mez­zo­giorno per popo­la­zione e, soprat­tutto, un labo­ra­to­rio di soste­ni­bi­lità sociale e ambien­tale, a par­tire dai tra­sporti neces­sari per dare la con­ti­nuità ter­ri­to­riale alle due sponde. La sfida della giunta Acco­rinti ha con­ta­giato la sponda reg­gina e l’idea di una città dello Stretto che venga fon­data sui valori dell’ambiente, dell’economia soli­dale e della pace, sta comin­ciando a navi­gare da una sponda all’altra. Se il tiranno Anas­sila era riu­scito a uni­fi­care le due città con la forza, oggi que­sta unione avviene sotto il segno di una demo­cra­zia che cre­sce dal basso.

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