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Michele Farina
Città in crescita: la lezione africana
19 Aprile 2014
Città quale futuro
Con troppa poca enfasi sugli aspetti sociali e istituzionali (ma siamo nella sezione tempo libero del giornale) comunque qualche spunto interessante sul futuro urbano dell'Africa.

Con troppa poca enfasi sugli aspetti sociali e istituzionali (ma siamo nella sezione tempo libero del giornale) comunque qualche spunto interessante sul futuro urbano dell'Africa. Corriere della Sera, 19 aprile 2014 (f.b.)

In Nigeria c’è una scuola galleggiante che può essere presa a simbolo del Rinascimento africano. Si spopolano i villaggi, avanzano le città: il 38% degli africani (300 milioni di persone) vive nelle aree urbane, con una crescita annua del 4%. Da qui al 2020 ci saranno 40 città africane più grandi di Roma o di Berlino. Il 70% della popolazione vive nelle caotiche periferie che, come nota l’Economist, Dickens e Balzac troverebbero familiari come i centri industriali nell’Europa dell’Ottocento. Non è una notazione neocolonialista, lo dicono gli africani stessi: il Continente che si espande a ritmi vertiginosi ha davvero un problema (e una straordinaria occasione) di sviluppo urbano sostenibile. Non è facile: per mettere ordine al caos di Addis Abeba in Etiopia, uno studio di architetti svizzeri ha consigliato alle autorità di prendere in considerazione il modello italiano, con strade che si dipartono a raggiera da un centro e di lasciar perdere le pareti di cristallo importato dall’estero per tornare alla più fresca ed economica pietra locale. L’Africa deve copiare l’Italia? Forse è più utile (anche per l’Italia) prendere a modello la scuola galleggiante di Makoko, incrocio impossibile (nella velenosa laguna di Lagos) tra una baraccopoli di palafitte e i canali di Venezia. Tre piani di materiali riciclabili che ospitano 100 studenti al giorno, la scuola di Makoko è uscita dalla testa di Kunlé Adeyemi, uno dei protagonisti della mostra «Together, le nuove comunità in Africa» aperta fino al 28 aprile allo SpazioFMGperl’Architettura di Milano.

Grandi architetti, grandi città africane: Lagos, Kigali, Cape Town. Quest’anno la capitale mondiale del design è proprio Città del Capo. Chi la considera «poco africana», non ha mai fatto la spola tra l’immacolata Marina e le polverose ex township di Cape Flats, dove i neri erano relegati al tempo dell’apartheid. Ci vivono ancora oggi, a 20 anni dalle prime elezioni dell’era Mandela, ma con un orgoglio e una carica diversi rispetto al passato. Carica e orgoglio: è questa la visione di Dayo Olopade, che nel suo nuovo libro intitolato «The Bright Continent» divide le società in grasse e magre. Le vecchie categorie (ricchi e poveri, sviluppati e in via di sviluppo) non bastano a spiegare la brillantezza dell’Africa attuale, magra e intelligente, contrapposta al ristagno soporifero dell’Europa.

Olopade, giornalista nigeriana-americana, spiega che «le società magre hanno un approccio alla produzione e al consumo tutto basato sul concetto di scarsità». Reddito medio 1.600 euro (all’anno!), popolazione al 70% sotto i trent’anni, gli africani «sanno che niente è scontato, niente può essere sprecato». Questo aguzza quella fondamentale (e poco conosciuta) forma di «know how» che nella lingua Yoruba (parlata in Nigeria) prende il nome di «kanju». Il fare che dribbla le difficoltà e le formalità, inventa nuovi modelli senza buttare niente, impastando praticità e fantasia, high tech e tradizione. L’Africa magra è il continente che cresce più veloce di tutti? È perché nel suo motore ha messo la giusta miscela di kanju che manca invece alle nostre «società grasse», che sprecano e vanno a rimorchio del passato.

Tra gli esempi di kanju applicato alla società (oltre che all’architettura), Olopade cita proprio la scuola di Makoko (è indicativo che gli amministratori di Lagos volessero abbatterla: troppo rivoluzionaria e al tempo tradizionale). Cita anche una clinica di Khayelitsha, una delle township di Cape Flats e una delle più povere del Sudafrica: lì alcuni container da trasporto navale sono state riciclati e riadattati fino a diventare lo spazio operativo della dottoressa Lynette Denny che li usa per gli screening e la prevenzione del cancro.
Naturalmente sarebbe auspicabile che le donne di Khayelitsha potessero fare gli esami in un ospedale vero. Ma anche Joe Noero, veterano degli architetti sudafricani che ha molto lavorato su progetti sostenibili proprio a Cape Town, si troverà in sintonia con il principio del Kanju applicato a Cape Flats. Le nuove comunità africane sono anche un monumento all’emergenza creativa. Noi grassi (ma sempre più deperiti) europei alla deriva dovremmo fare tesoro del Kanju pensiero. Mentre gli africani dovrebbero chiedere ai loro governanti di non perseguire una cementizia modernità pseudo occidentale (già superata). E tanto per cominciare fornire a tutti una rete elettrica decente (e non solo la rete dei telefonini). È la presa della corrente che, per esempio, meglio permette di conservare i cibi. Più kanju a noi, più frigoriferi agli africani.

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