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Giangiacomo Schiavi
SOS Padania (e povera Italia)
28 Marzo 2014
Padania
Quando la costruzione della città dell'uomo smette di essere un fine, diventa un paravento per fare tutt'altro, cominciano guai grossi. Due temi diversi che sembrano incrociarsi solo sul territorio locale, in due indipendenti articoli da

la Repubblica e Corriere della Sera Milano, 28 marzo 2014 (f.b.)

La Repubblica

Appalti e cantieri fantasma il cerchio magico dell’Expo
di Alberto Statera

UNA landa popolata di fantasmi umani e di mostri meccanici. Il campo di un milione e cento metri quadrati, lungo due chilometri e largo da 350 a 750 metri, che tra quattrocento giorni coperto di cinquecentomila alberi e tra idilliache scenografie dovrebbe portare dal mondo 20 milioni di visitatori e certificare la fine della decadenza della Nazione, sembra sulle mappe il profilo di un pesce spiaggiato. Come l’Italia. A guardarlo viene persino voglia di dare ragione, per una volta, al disfattismo di Beppe Grillo, che qualche giorno fa è stato qui e ha commentato: «Non c’è niente, c’è un campo e quattro pezzi di cemento. Ma chi ci vienea Rho?» Eppure, per fare le cose per bene l’Italia aveva a disposizione 2.585 giorni da quel 31 marzo 2008, il giorno in cui tra epici festeggiamenti ottenne dal Bureau International des Exposition l’organizzazione dell’evento mondiale del secondo decennio del secolo, vincendo la sfida con Smirne. “Grosse Koalition” all’ombra della Madonnina scrisse il “Financial Times”, commentando la collaborazione tra il governo Prodi, ormai al lumicino, e la destra che governava Milano e la Lombardia con Letizia Moratti e Roberto Formigoni.

Tutti insieme si spesero, anzi spesero in regali ai paesi votanti: scuolabus nei Caraibi, borse di studio nello Yemen e in Belize, una metrotramvia in Costa d’Avorio, una centrale del latte in Nigeria, bus a Cuba, e così via. Oltre a un numero imprecisato di orologi di pregio e altri presenti a ministri di mezzo mondo. Poi per quasi duemila tragici giorni andò in scena il bieco spettacolo di spartizione tra politici, partiti, correnti, faccendieri, signori degli appalti e anche coppole storte, per la caccia alle poltrone e per assicurarsi fette della torta di potere e denaro. Interessi che la Direzione Nazionale Antimafia definì subito “maggiori persino di quelli ipotizzabili dalla realizzazione del ponte sullo Stretto di Messina”, che Berlusconi, tornato a palazzo Chigi, aveva rimesso in cima al delirio sulle Grandi Opere. Ma non una pietra fu mossa in quella striscia di terra tra i comuni di Milano, Rho e Pero, che il nuovo presidente del Consiglio Matteo Renzi, qui in visita tra qualche giorno, dovrà necessariamente presentare come l’evento del grande riscatto del paese di cui si dichiara il protagonista.

Ora il Decumano e il Cardo, come aulicamente vengono chiamate le vie, che nelle città romane si intersecavano da est a ovest e da nord a sud, cominciano a intuirsi nel fango. Il fango del cantiere e quello dell’inchiesta della procura milanese che ha già portato all’arresto otto persone e promette sviluppi conturbanti. Sviluppi che — Dio non voglia — potrebbero fulminare la corsa contro il tempo per evitare all’Italia la figuraccia mondiale che rischia il primo maggio dell’anno prossimo, quando l’Expo dovrebbe partire. Molti avevano previsto che il sogno sarebbe diventato un incubo. Di fronte alla sanguinosa lotta per le nomine, il controllo dei finanziamenti e degli appalti, si fece portavoce del “partito della rinuncia” l’architetto Vittorio Gregotti, il quale ricordò il saggio precedente di Francois Mitterrand che all’ultimo momento nel 1989 cancellò i faraonici progetti per la celebrazione del bicentenario della rivoluzione francese. Ma a Parigi non c’era la simoniaca cupola politico-affaristica lombarda, che per diciotto anni sotto le insegne del casto Roberto Formigoni, capitano di una legione di sedicenti lottatori per la fede ma incapace di sottrarsi al peccato,non ha perso occasione per accumulare potere e denaro con mezzi illeciti, in nome del “ciellenismo realizzato” attraverso la Compagnia delle Opere: un blocco di potere con 34 mila aziende associate e almeno 70 miliardi di fatturato, che ha svuotato lo Stato dall’interno con l’alibi della sussidiarietà.

Negli scandali che si sono susseguiti negli anni, il cerchio magico del Celeste c’è sempre tutto. Organizzato quasi militarmente per specialità di business: la sanità, gli ospedali, l’ambiente, l’urbanistica, l’edilizia, le opere pubbliche. Delle ruberie sui 17 e passa miliardi annuali della sanità pubblica ormai, con le inchieste e i processi in corso, si sa molto. Come molto si sa da anni sulla mangiatoia delle opere pubbliche.

Alcuni dei nomi che ricorrono nell’inchiesta sull’Expo sono gli stessi che figurano in quella sul “Formigone”. Così è stato ribattezzato il palazzo che l’ex zar della regione ha fatto erigere in via Melchiorre Gioia a perenne celebrazione della sua potenza. Con i suoi 167 metri di altezza — più alto della Madonnina, come l’ex governatore sostiene volesse Papa Paolo VI — il mausoleo formigoniano è l’emblema dell’appaltopoli meneghina nello skyline dell’ex capitale morale dell’ormai obliata borghesia produttiva. La procura non trascura un’inchiesta partita sulla base di un rapporto del colonnello Sergio De Caprio, il “Capitano Ultimo” che arrestò il boss mafioso Totò Riina. Ricorrono i nomi di Rocco Ferrara, già arrestato per le estrazioni petrolifere in Basilicata, e di Antonio Rognoni, l’ex direttore di Infrastrutture Lombarde, quello appena arrestato per gli appalti dell’Expo.

Per la cronaca, il “Formigone”, che doveva costare 185 milioni di euro, ne ha ingoiati oltre 500. Capite allora cosa intende la procura quando analizza la vittoria dell’appalto per la “Piastra” dell’Expo da parte della Mantovani, al posto dell’Impregilo, che doveva vincere con il solito accordo di cartello scambiando appalti sulla Pedemontana Lombardo- Veneta, con un ribasso d’asta di oltre il 40 per cento, pari a 100 e più milioni? Che con gli inevitabili aggiornamenti prezzi c’è “ciccia” per tutti, soprattutto in un’operazione che coinvolge la dignità nazionale in corsa disperata contro il tempo. Un classico nella corruttela nazionale, i cui esempi si sprecano, a cominciare dagli appalti per il G8 della Maddalena gestiti direttamente a palazzo Chigi da Guido Bertolaso, regnante Berlusconi.

Quando l’appalto per la “Piastra” (oltre 160 milioni) andò alla Mantovani, società dicui era diventata pars magna la segretaria dell’ex presidente del Veneto Giancarlo Galan, Claudia Minutillo, con Erasmo Cinque e la Ventura di Barcellona Pozzo di Gotto (poi esclusa per sospetti di mafia), Formigoni fece un comunicato di fuoco per l’eccessivo ribasso d’asta. E il responsabile delle gare Pierpaolo Perez protestò con un interlocutore al telefono: «Ma cosa si è fumato? Io non lo voto più questo qui, deve essere internato». «È il politico più stupido che io conosco», disse del resto una volta Ciriaco De Mita di Formigoni. O il più furbo di tutti negli affari? Non capì niente in castità perfetta e povertà evangelica, come si richiede ai Memores Domini, o sapeva tutto? Personalità da psicoanalisi il Celeste, lo stesso uomo che balla sulle note di Hot Chili Peppers su uno yacht da milioni e che poi va a confessarsi dal padre salesianodi via Copernico. Piove sul fango di piazza Italia, 4.350 metri quadrati che non si sa se saranno mai pronti per il primo maggio 2015; piove sul Children Park e sull’Anfiteatro, già realizzato — così dicono — al 20 per cento; l’Orto Planetario è stato cassato, come buona parte delle autostrade; non piove sulle Vie d’acqua, cancellate dai progetti, che dovevano collegare Rho al vecchio porto della darsena, né sulla linea ferroviaria Rho Gallarate, che resterà un pezzo di carta inumidita.

Dicono che a 400 giorni dal giorno fatidico per il prestigio internazionale di questa nostra Italia siamo al 40 per cento dell’opera. Soltanto un rifiuto risoluto del disfattismo nazionale ci permette di crederci. Se il miracolo si compirà — e ce lo auguriamo — si aprirà la fase delle Red Arrings, le aringhe rosse, bocconi olezzanti che i cacciatori britannici disponevano sul terreno di caccia per distrarre i cani dei cacciatori avversari. L’Expo come aringa per attirare una speculazione immobiliare da 3 o 400 milioni di euro, quando il peccato originale dell’esposizione universale sarà un angoscioso ricordo. Si è già fatta sotto personalmente Barbara Berlusconi, leader politica in pectore, manifestando interesse per costruire su 12 ettari del pescione Expo uno stadio da 60 mila per il Milan. E magari qualche nuova “caricatura” di città nella città, come le chiama l’architetto Mario Botta. Secondo le tradizioni di famiglia.

Corriere della Sera Milano
L'immobiliare Sanità
di Giangiacomo Schiavi

L’inchiesta che coinvolge Infrastrutture lombarde incrocia la sanità milanese e un opaco sistema di appalti da rivedere per come sono pilotati e per le insidie corruttive che vengono a galla. Prima che sia (un’altra volta) troppo tardi è doveroso mettere il naso su un’operazione da centinaia di milioni che riguarda il trasloco di Istituto dei tumori e Neurologico Besta nell’ex area Falck di Sesto San Giovanni, in quella che è stata chiamata Citta della Salute: serve un supplemento di istruttoria e una garanzia di trasparenza sui conti e sul ruolo svolto da Infrastrutture lombarde e dall’ingegner Rognoni, attualmente agli arresti. Alla luce di quel che è successo per i cantieri del San Gerardo di Monza e di Niguarda, finiti nel mirino della Procura, è doveroso mettere al riparo un progetto di integrazione sanitaria, sia pur discusso e contestato, dal sospetto di illeciti e illegalità.

Ogni ragionevole dubbio dovrebbe essere confutato dal governatore, dal sindaco, dall’opposizione, dai sindacati, dai dirigenti, dai medici, dagli imprenditori, per garantire un percorso trasparente ed evitare sorprese in corso d’opera. Quel che si scopre ogni volta che la Procura si muove e scoperchia il pentolone degli appalti è un’imbarazzante commistione affaristica tra politica e imprese: le ragioni dell’utenza, in questo caso i malati e il personale della sanità, sembrano non contar niente. Invece dovrebbero essere prevalenti, per non ripetere i soliti errori e doverne pagare, più tardi, anche il prezzo.

Nel caso della Città della salute c’è alle spalle il poco edificante spreco di denaro pubblico per la falsa partenza nell’area dell’ospedale Sacco: quasi un paio di milioni di euro buttati tra studio di fattibilità, consulenze e avviamento della macchina organizzativa. Il polo pubblico della sanità d’eccellenza poteva essere una grande intuizione e non è mai stato del tutto chiaro il perché della rinuncia: se la lievitazione dei prezzi o le liti tra cordate sui futuri appalti.Il passaggio da una parte all’altra di Milano, da Vialba a Sesto, è sembrato lo schizofrenico segnale di una giunta al capolinea che ha salvato l’investimento ragionando come un’immobiliare: portando i due ospedali verso un Comune alle prese con il fallimento dei progetti di trasformare una gigantesca area dismessa, sulla quale doveva sorgere prima una banca e poi un centro televisivo.

È comprensibile l’impegno del sindaco di Sesto nel difendere la Città della salute: porterà valore e darà un senso alla futura area metropolitana. Ma oggi tocca alla Regione spazzare via tutte le ombre, e dare un senso vero al progetto sanitario. Anche attraverso la trasparenza del cantiere, dalle bonifiche agli appalti. Per non recriminare domani su quel che si doveva fare e non è stato fatto. E non far pagare ai cittadini altri inutili costi della politica.

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