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Angelo Mastrandrea
Sud corrotto, nazione infetta
22 Dicembre 2013
Temi e principi
«Mezzogiorno. Il meridione affonda inesorabilmente, vittima dei suoi mali, mentre il resto del paese rimane indifferente. «Se muore il Sud» di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella pone l’accento sulle responsabilità della «peggiore classe dirigente occidentale». Ora siamo di fronte a un bivio: o si cambia o muore tutta l’Italia».

«Mezzogiorno. Il meridione affonda inesorabilmente, vittima dei suoi mali, mentre il resto del paese rimane indifferente. «Se muore il Sud» di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella pone l’accento sulle responsabilità della «peggiore classe dirigente occidentale». Ora siamo di fronte a un bivio: o si cambia o muore tutta l’Italia». Il manifesto, 19 dicembre 2013

Poco meno di un secolo fa, un grande meri­dio­na­li­sta come Guido Dorso auspi­cava per il Mez­zo­giorno la nascita di una classe diri­gente di grande rigore morale, capace di «distrug­gere le cause della sua infe­rio­rità da se stesso» gra­zie alla spinta pro­pul­siva dei suoi figli migliori. Oggi, tra­scorsi il fasci­smo e un lungo dopo­guerra, sepolta la Prima Repub­blica e affie­vo­li­tosi l’abbaglio del ber­lu­sco­ni­smo, l’impressione è che quell’auspicio inat­tuato sia diven­tato un’urgenza.

Pur non men­zio­nando espres­sa­mente l’autore di La rivo­lu­zione meri­dio­nale, Ser­gio Rizzo e Gian Anto­nio Stella, in Se muore il Sud (“Fuo­chi” Fel­tri­nelli, pagg. 315, euro 19) per diversi aspetti si muo­vono sulla stessa fal­sa­riga. La for­tu­nata cop­pia anti-casta, cemen­tata sulle pagine del Cor­riere della Sera, mette sul banco degli impu­tati pro­prio quella classe diri­gente «che lascia affon­dare un pezzo dell’Italia». L’analisi dei due gior­na­li­sti, non priva di affetto verso il Sud ma pro­prio per que­sto impie­tosa, prende di mira le élite meri­dio­nali, quella classe poli­tica che non ha fatto nulla per argi­nare il declino e far sì che la sto­ria di un pezzo d’Italia non si tra­sfor­masse in un cahier de doléan­ces di occa­sioni per­dute. Piut­to­sto, essa è stata pro­ta­go­ni­sta in nega­tivo, com­plice e più spesso attiva pro­mo­trice dello scem­pio siste­ma­tico del ter­ri­to­rio e del sacco di risorse, sta­tali ed euro­pee.

Chi è abi­tuato agli arti­coli e ai libri di Rizzo e Stella sa bene come essi siano una bril­lante com­bi­na­zione di dati che inqua­drano i feno­meni rac­con­tati e aned­doti che li con­cre­tiz­zano. Così, i 677 mila euro per il Festi­val del pepe­ron­cino cala­brese o il con­tri­buto alla sagra del tara­tatà a Castel­ter­mini, in Sici­lia, diven­tano l’emblema della grande illu­sione sva­nita di tra­sfor­mare final­mente il Mez­zo­giorno attra­verso i fondi comu­ni­tari, com’è invece riu­scito all’Estonia. E le cen­ti­naia di sper­peri, inef­fi­cienze e ritardi innaf­fiati di belle parole, scan­dali inter­na­zio­nali come quello di Pom­pei che cade a pezzi o il pae­sag­gio della Terra di lavoro cam­pana che oggi risul­te­rebbe irri­co­no­sci­bile agli occhi di scrit­tori come Goe­the e Dic­kens che ne magni­fi­ca­rono le bel­lezze, com­pon­gono un puzzle deva­stante che getta di certo più di un’ombra su chi ha gover­nato que­ste terre, ma dovrebbe spin­gere a inter­ro­garsi anche sulla disgre­ga­zione morale e sociale che è stata causa ed effetto, allo stesso tempo, di cotanto scem­pio. Andrebbe trac­ciato un bilan­cio anche del fal­li­mento dell’idea che la moder­niz­za­zione indu­striale avrebbe eman­ci­pato le popo­la­zioni meri­dio­nali da ogni resi­duo feu­dale: a Bagnoli, ammet­tono Rizzo e Stella, dopo l’Ilva c’è stato il nulla. Biso­gne­rebbe chie­dersi infine per­ché l’arricchimento dif­fuso non ha gio­vato alla cre­scita col­let­tiva ma piut­to­sto ha for­nito linfa all’individualismo piccolo-proprietario, lo stesso che com­porrà il «blocco edi­li­zio» foto­gra­fato nel 1970 da Valen­tino Par­lato sulla Rivi­sta del mani­fe­sto: una for­ma­zione sociale com­po­sta da pic­coli pro­prie­tari, grandi spe­cu­la­tori e ric­chi pos­si­denti, votata poli­ti­ca­mente alla con­ser­va­zione, alla ren­dita e all’immobilismo sociale che ha cam­biato irri­me­dia­bil­mente i con­no­tati al ter­ri­to­rio e ancora oggi fa sen­tire tutto il suo peso quando si tratta, ad esm­pio, di tas­sare la pro­prietà pri­vata e le abi­ta­zioni.

L’opinione di Rizzo e Stella è che oggi lo spread tra Nord e Sud d’Italia è «per molti aspetti più ango­sciante di quello con la Ger­ma­nia». Vale la pena rie­pi­lo­garlo: i diplo­mati meri­dio­nali sono il 31,7 per cento, quelli cen­tro­set­ten­trio­nali il 56. I lau­reati meri­dio­nali che hanno un lavoro il 48,7 per cento, quelli cen­tro­set­ten­trio­nali il 71. La disoc­cu­pa­zione gio­va­nile è a livelli da allarme rosso: i cosid­detti “neet” – not in edu­ca­tion, employe­ment or trai­ning – per­sone che non cer­cano nem­meno più un lavoro, sono un milione e 850 mila, il 9% della popo­la­zione. Un eser­cito a dispo­si­zione delle mafie o della depres­sione. Secondo la Con­far­ti­gia­nato, la Cam­pa­nia è la regione d’Europa con il minor tasso d’occupazione: lavora appena il 39,9% degli abi­tanti. Infine, l’Istat ci dice che il 48% dei meri­dio­nali è a rischio povertà.

Si tratta di un’emergenza che dovrebbe pre­oc­cu­pare, e non poco, qual­siasi governo, non fosse altro per­ché una simile gigan­te­sca zavorra sta tra­sci­nando a fondo tutta l’Italia. Invece, l’annosa “que­stione meri­dio­nale” è con­se­gnata al peg­giore meri­dio­na­li­smo di ritorno, intriso di vit­ti­mi­smo e nostal­gie neo­bor­bo­ni­che, ran­cori anti-unitari fuori tempo mas­simo e miti infon­dati: ritorni di fiamma che Rizzo e Stella hanno il merito di demo­lire senza mezzi termini.

Come aveva già soste­nuto di recente lo sto­rico Fran­ce­sco Bar­ba­gallo in La que­stione ita­liana (Laterza edi­tore), i due autori riten­gono che quello meri­dio­nale sia un pro­blema nazio­nale, non fosse altro per­ché il gap tra le due parti del Paese ha ripreso a cre­scere a un ritmo inso­ste­ni­bile e che il male anche il Nord si meri­dio­na­lizza sem­pre più. Basta leg­gere il capi­tolo dedi­cato alla mafia a Milano: sono 26 i “locali” della ‘ndran­gheta cen­siti dalla Com­mis­sione anti­ma­fia, a livelli quasi cala­bresi. Eppure, il pro­blema non può essere solo eco­no­mico. Se è vero, come ci dice sem­pre Bar­ba­gallo, che dall’Unità d’Italia a oggi l’unico periodo in cui il diva­rio tra le due Ita­lie si è ridotto è stato quello del boom eco­no­mico a cavallo tra gli anni ’50 e ’60, è altret­tanto vero, come ci spiega Vezio de Lucia nel suo Nella città dolente (Castel­vec­chi edi­tore), che è stato pro­prio in que­sto periodo che è comin­ciato il più grande sac­cheg­gio del ter­ri­to­rio che la sto­ria d’Italia abbia mai cono­sciuto, immor­ta­lato nel suo nascere da Fran­ce­sco Rosi in Le mani sulla città.

Il Sud è irri­me­dia­bil­mente per­duto, dun­que? Le pagine di Stella e Rizzo con­se­gnano al let­tore la sen­sa­zione che non ci sia molto in cui spe­rare: una classe poli­tica inetta e cor­rotta, un defi­cit di cul­tura demo­cra­tica che non si rie­sce a sanare, gro­vi­gli di clien­tele e affa­ri­smi dif­fi­cili da sbro­gliare. Nono­stante tutto, i due gior­na­li­sti non si iscri­vono al par­tito dei tagli: «Un paese serio avrebbe fatto di più per il Mez­zo­giorno», scri­vono. «Ci avrebbe inve­stito con impe­gno. In scuole, infra­strut­ture, strade, poli­ti­che gio­va­nili che des­sero sfogo alle intel­li­genze scin­til­lanti di tanti ragazzi del Sud. Ma nulla è stato peg­gio che lasciare ai poli­tici più spre­giu­di­cati, ai feu­da­tari della buro­cra­zia e ai capi­ba­stone mafiosi la gestione ricat­ta­to­ria, clien­te­lare ed elet­to­rale delle inden­nità per i tanti brac­cianti». È acca­duto invece che le menti migliori siano state costrette ad andar via e a lasciar campo libero a un sistema feu­dale, mafioso, con­trad­dit­to­rio nel suo pre­sen­tarsi come iper­mo­derno senza essere entrato a pieno nella moder­nità.

Ma si può ricon­durre tutto alle respon­sa­bi­lità delle sole classi diri­genti? Alla ceri­mo­nia di con­se­gna del pre­mio Vol­poni, lo scorso 30 novem­bre a Porto Sant’Elpidio nelle Mar­che, lo scrit­tore par­te­no­peo Ermanno Rea ha adom­brato la pos­si­bi­lità di una tara antro­po­lo­gica, già fatta risa­lire in La fab­brica dell’obbedienza, con l’aiuto di un grande filo­sofo napo­le­tano dell’800, Ber­trando Spa­venta, agli effetti dere­spon­sa­bi­liz­zanti della Con­tro­ri­forma cat­to­lica. «Il giorno in cui vedrò un napo­le­tano fer­marsi a un sema­foro alle 3 di mat­tina, con la strada sgom­bra, vorrà dire che gli ita­liani sono gua­riti», ha detto in quella occa­sione. Un altro grande scrit­tore par­te­no­peo, Raf­faele La Capria, in L’armonia per­duta se la prende con la «pic­cola bor­ghe­sia», dispo­sta a ogni com­pro­messo per paura di finire vit­tima della «rea­zione», come nella rivo­lu­zione man­cata del 1799.

Il fan­ta­sma di Fran­ce­sca Spada, la pro­ta­go­ni­sta di Mistero napo­le­tano di Ermanno Rea, ne La comu­ni­sta torna a Napoli per con­se­gnare allo scrit­tore il suo mes­sag­gio: il Mez­zo­giorno riu­scirà a sal­varsi solo se avrà «l’entusiasmo dell’impossibile», vale a dire la capa­cità di ripren­dere a imma­gi­nare un futuro, di costruire un’utopia. Rizzo e Stella, più con­cre­ta­mente, sosten­gono che il Sud si trova davanti a un bivio: pro­se­guire con il solito andazzo e morire. O rico­min­ciare. Tor­nando a sognare, dan­dosi degli obiet­tivi ambi­ziosi e pun­tando sui pro­pri figli migliori. Rom­pendo «le catene clien­te­lari con la più vec­chia, sca­dente e cor­rotta classe poli­tica del mondo occi­den­tale» e spez­zando quel patto scel­le­rato che ha con­sen­tito al peg­gior ceto diri­gente del Nord di accor­darsi, come scrisse Gae­tano Sal­ve­mini un secolo fa, con il peg­gior ceto diri­gente del Sud. Se così non acca­drà, a essere per­duta sarà tutta l’Italia. Oggi, come un secolo fa, si auspica una rivo­lu­zione che sia opera degli stessi meri­dio­nali. «Sarà que­sta», con­clu­deva Guido Dorso, «la vera rivoluzione».

l'immagine è di Franco Arminio
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