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David Madden
Il trucchetto della riqualificazione urbana per pochi
11 Ottobre 2013
Come scoprono quasi tutte le amministrazioni (oneste) verso fine mandato, nelle città le mitiche promesse liberali di redistribuzione degli investimenti urbani variamente rigeneranti a partire dal mercato, non funzionano quasi mai, in nessuna parte del mondo.

The Guardian, 10 ottobre 2013 (f.b.)

Titolo originale: Gentrification doesn't trickle down to help everyone – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Non è un segreto: nelle grandi città di oggi impera la diseguaglianza, e la gentrification è il tipo prevalente di trasformazione locale. In innumerevoli quartieri di tutto il mondo, calano le case economiche, e cresce la quantità delle persone costrette a trovarsi posto altrove. Cosa particolarmente vera a New York e Londra, dove chi si occupa da vicino del fenomeno è anche costretto a inventarsi prefissi adeguati (mega, iper, super, sono già stati usati in abbondanza) a descrivere il ritmo a cui avanza la sostituzione sociale a cambiare la città. Ma anche così gran parte del dibattito sulla gentrification non presenta davvero la questione per quello che è.

Funziona così: c'è un quartiere povero in cui si dice c'è bisogno di riqualificazione, di “rivitalizzazione”, come se il problema fosse una specie di torpore, di sonnolenza, e non povertà e emarginazione. Quindi un processo di esclusione viene ribattezzato creativamente come “rinnovo”. E l'obiettivo di “diversificare” si sfrutta in modo perverso come scusa per scacciare gente dalle proprie case, da quartieri come Harlem o Brixton, zone famose per una lunga tradizione di contesti politicamente e culturalmente indipendenti. E dopo la gentrification puntualmente si commenta che il quartiere si è “ripreso” dalla condizione di povertà, ignorando il fatto che quella povertà si è soltanto spostata altrove.

Davvero insidioso, il modo in cui questa narrativa del “rinascimento urbano” - le eroiche vicende di élites che salvano le città dalle classi pericolose – permea di sé il dibattito contemporaneo, nonostante si tratti di una fantasia condiscendente, spesso anche razzista. Se la gentrification si critica, ciò avviene tendenzialmente secondo criteri tali da confondere il problema. L'ultimo è l'ossessione contro certi aspetti esteriori folkloristici, modaioli, o addirittura “aggressivi”. Lamentare l'invasione di paninoteche e locali caffetteria di tendenza ormai è un classico di tutti gli articoli che ci raccontano Williamsburg or Dalston. Ma questi racconti riducono la questione della diseguaglianza a vaghe nostalgie borghesi per l'atmosfera di autenticità.

Pare ormai tempo, da troppo tempo, che amministratori, studiosi, urbanisti, provino a de-gentrificare la propria prospettiva di osservazione sulle città. Ciò richiede mettere da parte una serie di miti pervasivi che hanno contribuito a legittimare la diseguaglianza, colonizzando l'immaginario degli osservatori. Il principale di questi miti è quello secondo cui nei quartieri esista una secca alternativa: sostituzione sociale oppure degrado. Ci sono benintenzionati progressisti convinti che le città possano solo pensare in termini di brutto passato da superare verso un futuro di gentrification. I teorici sostengono la medesima ipotesi, con l'idea che esistano organismi urbani in costante evoluzione, e che la sostituzione sociale sia l'alternativa alla stagnazione. Tutte argomentazioni fuorvianti, perché propongono un'alternativa sbagliata. Nessun critico serio della gentrification vuol certo mantenere le cose così come stanno. Invece della contrapposizione fra sostituzione sociale e degrado, le città potrebbero pensare in termini di distribuzione di risorse più equilibrata, di decisioni prese più democraticamente.

Altro mito, è che i vantaggi della sostituzione sociale si riversino poi via via su tutte le classi. I profeti di queste politiche urbane elitarie a volte sostengono (l'ha fatto poco tempo fa il sindaco di New York, Michael Bloomberg) che attirare i molto ricchi sia il modo migliore per aiutare quelli che vengono stravagantemente definiti “meno fortunati”. Ma questa teoria del riversamento progressivo dei vantaggi della gentrification, non tiene conto del fatto che i “più fortunati” puntualmente faranno di tutto per cambiare le priorità dell'amministrazione, l'organizzazione urbanistica delle loro zone, per rispondere ai propri bisogni, di solito a svantaggio dei ceti e quartieri meno influenti. Più le amministrazioni cittadine subiscono questa ossessione del taglio dei servizi e di penalizzazione dei deboli, meno appare logica la teoria alla base della gentrification.

Ma il mito più micidiale, probabilmente, è quello secondo cui non si può far nulla, contro la sostituzione sociale, salvo strappare alcune misericordiose concessioni ai grandi costruttori. La gentrification non è un processo inarrestabile. Vero, affonda le proprie radici in alcuni processi politici ed economici – dalla mercificazione delle politiche della casa, alle trasformazioni in senso liberista dello stato, alla crescita in generale delle diseguaglianze – che devono essere affrontati alla scala adeguata. Ma esistono altre scelte che, anche in tempi più ravvicinati, potrebbero portarci a una città più eguale e democratica: più case pubbliche, controllo del sistema degli affitti, gestione aperta dei quartieri, allargamento dei servizi sociali, più ruolo per i sindacati, più ruolo ai movimenti sociali che danno voce alle ambizioni politiche di poveri e lavoratori.

C'è stato un tempo in cui Londra e New York e tante altre città moderne si impegnavano su grandi programmi per la costruzione di case, scuole, trasporti, servizi per la salute, spazi pubblici a vantaggio di tutti. Certo la democrazia sociale urbana del ventesimo secolo ha limiti e contraddizioni, ma dimostra come anche nel cuore profondo del sistema capitalistico fossero possibili contesti urbani diversi. Oggi forse non è troppo tardi per rilanciare politiche e costruire un'alternativa alla città della sostituzione sociale e della diseguaglianza. Il contrario della gentrification non è il degrado urbano, ma la democratizzazione dello spazio urbano.

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