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Gad Lerner
Il nuovo bisogno di fratellanza
3 Febbraio 2013
Articoli del 2013
«La società civile avrebbe bisogno di una politica che non riduca i diritti di cittadinanza al diritto di voto. Le persone, le famiglie, le comunità si industriano nella ricerca dell’aiuto reciproco, qui e ora. La politica invece è salita troppo in alto». La Repubblica, 3 febbraio 2013

«. La Repubblica, 3 febbraio 2013

Come aiutarci nel fronteggiare l’indigenza? La fantasia non ha limiti. Un anonimo filantropo milanese che agisce tramite la Fondazione Condividere, ha elargito nei giorni scorsi una donazione in soccorso ai dipendenti della famosa scuola di Adro: dieci di loro, non certo benestanti, avevano stabilito di autotassarsi per 30 euro al mese pur di non escludere dalla refezione scolastica quindici bambini di famiglie che non ce la fanno a pagare la mensa. Il tutto per via del solito sindaco Lancini, spendaccione quando si trattava di ornare la scuola con simboli padani, ma ostinato nel rifiutare un contributo pubblico a famiglie di immigrati (poco gli importa che fra i morosi ci siano anche degli italiani): a lui piace insinuare il dubbio che si tratti di finti poveri. Ora i pasti saranno garantiti per tutti.

Ecco un’applicazione concreta del principio (biblico? laico? poco importa) di fraternità. Prevale la fratellanza là dove una guerra tra poveri avrebbe potuto dar luogo a un fratricidio. Cooperazione spontanea, mutuo soccorso, spirito di comunità.

Sono faccende di cui la politica tende a disinteressarsi, impegnata com’è nella contesa per la leadership. A sinistra ci sarà chi critica il meccanismo di una filantropia che funge da tappabuchi al doveroso intervento dello Stato. A destra si accontenterebbero di defiscalizzare la beneficenza privata. Ma in mezzo c’è la società civile, c’è il bisogno quotidiano di rispondere alla minaccia concreta della povertà sempre più difficile da ignorare. Siamo sicuri che questa società civile, immersa in una crisi che si prolunga negli anni, non sia in grado di generare un sistema economico capace di garantire fratellanza, e non solo concorrenza?

Trovo suggestiva ma anche lungimirante, in proposito, la ricerca in cui s’è impegnato l’economista Luigino Bruni, editorialista di “Avvenire”, studioso della cooperazione nonché animatore del Movimento dei Focolari fondato da Chiara Lubich. Non occorre essere cattolici per seguire il filo del ragionamento storico esposto da Bruni nel suo originalissimo libro “Le prime radici. La via italiana alla cooperazione e al mercato” (Il Margine). Là dove egli ci mostra come dal Medioevo dei liberi comuni e del monachesimo, quando la nozione di cittadinanza si estese ai mestieri, alle arti e al commercio, per riproporsi dopo la controriforma nell’illuminismo e nel Risorgimento, la società civile in Italia ha trovato le sue basi nell’impresa cooperativa, e poi nel credito cooperativo e nelle cooperative di consumo. Una tradizione che ancor oggi è alla base della stragrande maggioranza dell’economia del paese, se è vero che il 97% delle imprese ha meno di quindici dipendenti, e se aggiungiamo l’8% dei lavoratori nelle cooperative e il 15% nella pubblica amministrazione. Bruni esalta questo modello in cui l’impresa per vocazione si fa carico anche di problemi sociali e familiari che non trovano posto nel mero “business is business”. Dove, cioè, la convenienza economica s’intreccia naturalmente con aspirazioni umanistiche, poco importa se di natura culturale e/o religiosa.

Perché “il confine tra società, famiglia, comunità e impresa da noi è sempre stato poroso e sfumato”.

Di fronte alla crisi del capitalismo individualistico-finanziario che oggi tende a retrocedere in una difesa tipicamente feudale delle sue rendite, pur di contrastare la condivisione della ricchezza, bisogna riprendere sul serio i capisaldi dell’economia sociale. Per scoprire magari il filo che congiunge i Monti di Pietà di origine francescana alle Casse rurali ideate a fine Ottocento da Leo Wollenborg, fino alle cooperative di mestiere del socialismo nascente. Per ritrovarsi oggi nel nuovo mutualismo dei Gruppi di acquisto solidale, delle Banche del tempo, del co-housing e del co-working.

Siamo proprio sicuri che si tratti delle ingenuità di un sognatore, devoto a Mazzini e al suo ideale di riunione nelle stesse mani di capitale e lavoro? Ci andrei piano, prima di liquidarle come tali. L’alternativa tra fratellanza e fratricidio si ripropone ogni giorno con la perdita di posti di lavoro e di quote di reddito, spingendo fasce crescenti di popolazione ai margini del mercato. Per loro l’associazione è la risposta, ben più che la concorrenza. E così torna d’attualità la critica dell’economia ridotta a matematica in cui si distinse il teorico italiano della cooperazione, Achille Loria.

Riuscirà la politica a nobilitarsi raccogliendo l’impulso spontaneo al mutuo soccorso e all’impresa solidale che va diffondendosi nei luoghi della sofferenza sociale? Le resistenze culturali sono ardue da superare nelle burocrazie dei partiti e dei sindacati. Perfino le strutture ufficiali del movimento cooperativo negli ultimi anni hanno mutuato la mentalità e i metodi del management finanziario. Eppure non ci vorrebbe molto per aprire tante sedi ridotte oggi a funzioni impiegatizie, trasformandole in punti di riferimento per i bisognosi.

Nonostante il permanere di diffidenze e pregiudizi, qualcosa si muove. Mi è successo di recente alla Camera del Lavoro di Milano di suscitare le critiche di un’assemblea di esodati cui suggerivo di far tesoro del loro tempo forzatamente libero, dopo che la protesta li ha riuniti. Per poi scoprire che già lo “sportello esodati” della Cgil fornisce supporto psicologico e consulenze pratiche a un numero crescente di miei coetanei. Basterebbe un passo in più per organizzare il mutualismo, nell’assistenza così come nell’impresa sociale su base cooperativa. Succede fra i giovani in cerca di lavoro, nelle proprietà confiscate alla mafia, fra gli sfrattati, fra le partite Iva del precariato. Ma succede senza che una visione politica organizzi in speranza collettiva questa via d’uscita dalla crisi. Quasi che il rancore sociale e l’isolamento personale fossero un destino ineluttabile.

In altre epoche di penuria la società civile ha saputo condizionare virtuosamente il mercato, la cui logica non deve essere per forza spietata. Per riuscirvi di nuovo avrebbe bisogno della sensibilità di una politica che non riduca i diritti di cittadinanza al solo diritto di voto. Le persone, le famiglie, le comunità si industriano nella ricerca dell’aiuto reciproco, qui e ora. La politica invece è salitatroppo in alto.

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