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Sara Spanu
Olbia: lo slum della Costa Smeralda?
30 Gennaio 2013
Altre città
Il modello di sviluppo turistico suburbano costiero tanto amato da generazioni di amministratori sardi, e il suo automatico rovescio della medaglia: il degrado urbano, o peggio sociale

Il modello di sviluppo turistico suburbano costiero tanto amato da generazioni di amministratori sardi, e il suo automatico rovescio della medaglia: il degrado urbano, o peggio sociale

La Costa Smeralda si prepara ad accogliere ruspe e mattoni per il più consistente intervento edilizio dai tempi del Principe Aga Khan. Niente di nuovo sotto il sole: l'obiettivo dichiarato è quello di “svecchiare la clientela abituale” e attirare nuovi frequentatori, più giovani e super ricchi. Questo l'intento della nuova gestione della Costa Smeralda made in Qatar. Il tutto è ancora in fase di definizione e le proposte progettuali dovranno essere valutate dagli uffici, ma niente lascia presagire che gli attuali rendering non vedranno la luce.

Rendering di un progetto

La stampa dedica tutta l’attenzione sui progetti destinati alle coste, senza tuttavia occuparsi né della città di Olbia attorno a cui ruota questo processo, né del chiaro intento di archiviare definitivamente il Piano Paesaggistico Regionale varato dalla giunta regionale di Renato Soru. In questa parte di Sardegna la classica visione dello sviluppo territoriale saldamente legata a grandi flussi di denaro, volumi e aumenti di cubature beneficia, più che altrove, delle concessioni previste dai più recenti strumenti legislativi in materia di (sedicente) rilancio economico, ciclicamente riconfermati. Ora come allora.

Il processo di specializzazione turistica e di elitarizzazione della costa nord-orientale sarda sembra, dunque, più vivo che mai e volgendo lo sguardo verso l'entroterra la situazione, per altri versi, non appare meno segregata. Propongo di seguito alcune considerazioni sulla città di Olbia che scaturiscono da una riflessione più ampia maturata nell’ambito di una ricerca nazionale su “Spazi pubblici, popolazioni mobili e processi di riorganizzazione urbana”.

Olbia costituisce la realtà urbana più significativa dell’area nord-orientale della Sardegna per numero di abitanti, concentrazione di attività economiche e servizi e al tempo stesso rappresenta l'emblema della debolezza di un sistema territoriale incapace innanzitutto di individuare una propria vocazione che, da un lato, sia alternativa a quella di incubatore di manodopera estiva per i vari resort limitrofi e, dall'altro lato, si proponga semmai di investire e promuovere le risorse del luogo - e il luogo stesso - in una logica più articolata e di lungo termine.

Già a partire dall'organizzazione della città di Olbia è possibile cogliere una serie di elementi che tradiscono un certo caos di fondo. Attraversare la città è un ottimo esercizio per capire i meccanismi che regolano un sistema urbano e nel caso di Olbia questa pratica consente di mettere insieme vari pezzi di un puzzle che a fatica si incastrano perché l'immagine di città che dovrebbero formare non è affatto definita.

A titolo d'esempio può essere utile adottare come prospettiva di osservazione gli spazi pubblici urbani. In una città cresciuta freneticamente negli ultimi cinquant'anni, sulla scia del boom della Costa Smeralda, l'accumulazione disordinata di manufatti destinata ad accogliere le nuove popolazioni inurbate ha di fatto prevalso su qualsiasi ragionamento attorno alle modalità con cui governare l'espansione in atto. Con i risultati che si possono osservare oggi: una città largamente inclusiva per quanto riguarda la circolazione automobilistica e assai carente su molti altri versanti. Primo fra tutti, gli spazi destinati all'incontro e alla socialità.

Barriere all'acessibilità del parco
(foto Sara Spanu)

Basti pensare che è tutto sommato recente la riqualificazione di un'area ex demaniale, il cosiddetto parco urbano “Fausto Noce”, in pieno centro olbiese, forse l'unica area della città abbastanza estesa da consentirne un utilizzo diversificato in termini di attività sportive o più semplicemente per svago e intrattenimento. Seppur isola felice in mezzo al traffico, frequentata da numerosi visitatori, il parco urbano si presenta come un'occasione mancata. Intanto per via del fatto che non si apre per nulla agli spazi adiacenti, mentre risulta fortemente rinchiusa entro confini e recinti, addirittura fiancheggiata dalla presenza di corsi d'acqua invalicabili, quasi fosse una fortezza.

E in effetti l'idea di una realtà un po' segregata la trasmette: non solo per via degli orari e dei punti di accesso, che evidentemente ne regolano la fruizione, ma anche per come lo stesso spazio è organizzato all'interno. Parte del parco è riservata a strutture sportive anche importanti, il cui utilizzo tuttavia è prerogativa di atleti e società sportive, e l'accesso strettamente riservato. Gli spazi di libera fruizione si sviluppano attorno alle strutture presenti, talune persino in grave stato di degrado, e non sembrano rivestire la funzione prioritaria che ci si attenderebbe da un parco pubblico, ossia essere un luogo di identificazione, attrazione e destinato a favorire usi e accessi diversificati da parte di popolazioni eterogenee.

Gli utenti esclusi dal verde
(foto Sara Spanu)

Su piccola scala l'organizzazione di questo spazio ricalca ciò che si replica anche appena fuori dai cancelli, ovvero il prevalere di una fruizione della città fortemente individualizzata, a forte orientamento automobilistico sia dal punto di vista della percezione che della fruizione, che scoraggia un uso diffuso degli spazi collettivi: sia perché spesso mancano, sia perché sono colonizzati da altri usi. Anche in questo caso è sufficiente attraversarla a piedi (modo di trasporto evidentemente considerato marginale da chi la città la progetta e organizza e governa) per rendersi conto rapidamente che la mobilità pedonale non sempre è stata contemplata nelle scelte spaziali, stata lasciata più che altro al caso o a soluzioni di tipo fai-da-te. Analogamente, la crescita disordinata e non pianificata della città si intuisce anche dalla scarsità di slarghi e piazze, c'è poco o nulla per favorire le relazioni e il senso di identificazione, come coltura della dimensione pubblica e collettiva della città.

Certo ribaltare una situazione pregressa sarebbe operazione tutt'altro che semplice, ma forse basterebbe cominciare da iniziative che tendano a riqualificare sia gli spazi che gli usi. Molte realtà urbane ci sono riuscite, se si pensa alla riappropriazione del waterfront da parte di città come Barcellona e Genova in epoca recente. Anche a Olbia un po' è percepibile un tentativo del genere, che però non si configura certo come disegno complessivo entro cui gli interventi puntuali indichino una logica, una strategia. Viene da chiedersi: gli sforzi in qualche modo messi in atto, che tipo di effetti intendono produrre e, più in generale, a quale idea di città si ispirano?

Più che rientrare in un progetto di città a lungo termine, orientato ad accrescere la qualità urbana degli spazi, l'idea di Olbia che emerge osservando i suoi spazi e l'uso che i cittadini provano a farne, corrisponde alla logica cumulativa che se ieri è servita nel bene e nel male ad assecondare l'espansione demografica e territoriale, oggi non attribuisce né potrebbe attribuire agli spazi della città un'identità lasciata in sospeso, proprio a causa di una crescita troppo rapida e mal gestita. Per provare a farlo ci si affida ad una prassi consolidata in voga nelle città contemporanee, di ricorrere all'inserimento di manufatti architettonici di richiamo.

Invece di una piazza, un'architettura
(foto Sara Spanu)

Ma il dubbio torna: con quale finalità? L'inaugurazione della Piazza Mercato in seguito al restyling di qualche anno fa venne presentata come occasione per rilanciare il centro storico: una maestosa copertura di vetrate ondulate e ferro che sovrasta un parcheggio interrato. Anche non mettendo nel conto il fatto che un errore di progettazione rende ad oggi inutilizzabile quel parcheggio (e in sostanza anche la piazza un luogo malsano se non addirittura pericoloso) è difficile ritenere che il rilancio del centro antico olbiese possa dirsi in qualche modo iniziato: l'operazione, come altre, non sembra rientrare in strategie più complesse di intervento in grado di rispondere in maniera articolata a esigenze differenti. In altre parole, manca un ripensamento complessivo dell'organizzazione della città e dei suoi spazi non in termini di occasioni di rilancio economico o singoli manufatti da ostentare, ma di qualità urbana e quindi di accessibilità, flessibilità, sicurezza.

I centri commerciali di modello extraurbano, qui come altrove e probabilmente a maggior ragione, sopperiscono alla cronica mancanza di qualità urbana che Olbia evidentemente non è in grado di offrire, specie in termini di spazi in cui incontrarsi e stare insieme. E qui persino l'aeroporto si propone a sua volta - in un'accezione provocatoria - come “spazio pubblico” di supplenza, ma di fatto in aperta concorrenza alla città. Alla funzione originaria di scalo e terminale, se ne affiancano altre, localizzate qui e non a Olbia centro, che di fatto sottraggono energie e risorse alla città vera per spostarle altrove e sottoporle a ben altri meccanismi. In tutto questo, spicca l'assenza di una guida politica autorevole capace di porre un freno al progressivo impoverimento urbano, innanzitutto di tipo sociale e culturale, offuscato da investimenti miliardari e sedicenti piani di sviluppo locale.

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