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Francesco Erbani
Koolhaas«Decide il mercato, l'architetto è solo un clown»
27 Gennaio 2013
Venezia e la Laguna
Fa paura quando da una cattedra prestigiosa, in una città tormentata dai rigurgiti della "modernità", alla domanda se non è grave che Venezia si consegni a una monocultura turistica, si risponde: «il turismo fa vivere la città. Siamo noi a parlare in negativo del turismo e a creare una distorsione nella percezione della gente».

Fa paura quando da una cattedra prestigiosa, in una città tormentata dai rigurgiti della "modernità", alla domanda se non è grave che Venezia si consegni a una monocultura turistica, si risponde: «il turismo fa vivere la città. Siamo noi a parlare in negativo del turismo e a creare una distorsione nella percezione della gente». La Repubblica, 26 gennaio 2013

Progettisti e curatori si sono finora alternati alla direzione della Biennale Architettura. Adesso arriva Rem Koolhaas, olandese di Rotterdam, che definire solo architetto è irrimediabilmente riduttivo. È certo architetto, stella lucente nel firmamento internazionale. Ma è poi sociologo, ideologo, filosofo metropolitano. È stato giornalista e ha scritto per il cinema. È autore di libri intitolati Delirious New York, Junkspace e S, M, L, XL, che vengono sventolati come vessilli insieme alle formule in essi contenute, «cultura della congestione», «tecnologia del fantastico», «metropoli groviera». Suoi edifici sono in tutto il mondo, a Seattle la Central Library, a Berlino l’ambasciata olandese, a Porto la Casa della Musica, a Pechino il quartier generale della Tv.

A Venezia Koolhaas arriva dopo aver vinto il Leone d’oro alla carriera nel 2010, ma soprattutto sulla scia delle polemiche dell’anno scorso. Polemiche legate al suo progetto per il Fondaco dei Tedeschi, che anche oggi, il giorno della presentazione della “sua” Biennale fanno indispettire il presidente della rassegna Paolo Baratta che rimprovera una giornalista spagnola per aver fatto una domanda sulla questione. È la prova che anche in Spagna si conosce la vicenda del Fondaco, l’edificio rinascimentale affacciato su Canal Grande e ponte di Rialto, sul cui tetto l’architetto olandese immaginava una terrazza panoramica e la cui corte veniva attraversata da una scala mobile che segava balaustre e membrature laterizie. Ora il progetto, bersagliatodai ricorsi di Italia Nostra, bocciato dalla Soprintendenza, è stato modificato. La Soprintendenza l’ha accolto, Italia Nostra vuol vederlo prima di esprimersi, ma nutre ancora perplessità.

La Biennale del 2014, sarà intitolata Fundamentals, che a Venezia ricorda le fondamenta, i tratti di strada che costeggiano canali e rii, ma che nell’accezione dell’architetto olandese e di Baratta sta a indicare proprio i fondamenti dell’architettura, gli elementi basilari — le porte, i pavimenti, il soffitto… Sarà una Biennale sull’architettura e non sugli architetti, convengono Koolhaas e Baratta. E, aggiunge Baratta, nella scelta del tema, «siamo partiti dalla constatazione del divario tra la spettacolarizzazione dell’architettura, da un lato, e dalla scarsa capacità di esprimere domande ed esigenze da parte della società civile, dall’altro».

Però Koolhas, vedendo le sue architetture, così mosse, ardite, ci si domanda se lei si riconosce appieno nella riflessione sul divario crescente fra architetturaspettacolo e architettura che incontra i bisogni. Non pensa?
«L’architettura non è una disciplina isolata. L’hanno condizionata le guerre e le rivoluzioni. Adesso domina l’economia di mercato che ha reso difficile, anche per un architetto come me, misurarsi, per esempio, con l’edilizia sociale. Si è portata l’attenzione sullo stupore e sullo spettacolo, spostandola dalla responsabilità verso gli altri. Il mercato ha ridotto i campi di intervento dell’architettura. E l’architetto si è limitato a svolgere spesso il ruolo del clown»

E lei come reagisce?
«La mia ambizione è quella di estendere di nuovo quel campo».

Ma si può lasciare al mercato il disegno complessivo di una città?
«Certo che no. Però a chi ritiene che la dimensione commerciale di una città sia solo negativa, va ricordato che Amsterdam o Venezia sono state costruite su questo elemento e tuttora vivono di questo».

Lei lavora in Italia da trent’anni. A Roma. A Venezia. Quanto è complicato fare architettura in Italia?
«Gli italiani soffrono di un certo grado di narcisismo e credono che l’Italia sia il luogo più complicato in assoluto. È complicato fare architettura ovunque, non c’è nulla di unico nel complicato ».

Compreso per mettere mano al Fondaco dei Tedeschi sul Canal Grande?
«Sì, compreso».

Il presidente Baratta ha rimproverato una giornalista spagnola che le ha fatto una domanda sul Fondaco. Lei vuole rispondere?
«Quel progetto ha avuto un cammino difficile. Ora stiamo per raggiungere un risultato positivo. Ma, parlando in generale, io vivo l’architettura come partecipazione ai problemi. E non si voltano le spalle ai problemi. Il progetto è una forma di dialogo estremo con i problemi».

Dietro la vicenda del Fondaco, che diventerà un centro commerciale, c’è Venezia che si consegna a una monocultura turistica. Non è grave?
«Non è un problema. Se ne discute, lo so, ma non è un problema. Ieri ho camminato per le calli e ho incontrato metà italiani, metà stranieri. A Venezia non vorrebbero turisti per sentirsi più autentici? Il turismo fa vivere la città. Siamo noi a parlare in negativo del turismo e a creare una distorsione nella percezione della gente».

Ai junkspaces, agli spazi spazzatura, lei ha dedicato un libro. Sono passati più di dieci anni da allora: è cambiato qualcosa?
«Poco o niente. Junkspace è parte dell’architettura generata dall’economia di mercato. Io non la rigetto, voglio capirla. La mia mentalità non è giudicante, cerca di comprendere».

Lei ha lavorato nel cuore profondo dell’Europa, dall’Olanda alla Francia al Portogallo. E poi in Cina. Ha scritto di Singapore. Quale dei modelli urbani prevarrà nel futuro, quello occidentale o quello orientale?
«La domanda è mal posta. Non ci sono modelli puri. In Oriente i modelli sono una commistione di elementi occidentali e orientali. E poi, qual è il modello italiano? In Italia la gran parte delle città comprende zone medievali o rinascimentali e poi le nuove urbanizzazioni novecentesche,in cui dominano i contenitori commerciali. In Cina c’è bisogno di costruire città a velocità accelerata, perché l’urbanesimo è potente. L’Europa, invece, è satura».

Ma lei è convinto o no che, nel progettare un edificio, conti molto la creazione di spazio pubblico?
«È molto importante. Ma tutto ciò è sempre espressione di un sistema politico. Ora che domina il mercato gli spazi pubblici vengono erosi o non vengono da noi stessi mantenuti in quanto tali. Trent’anni fa in Olanda quando nevicava qualsiasi persona puliva davanti al portone di casa. Il marciapiede, pubblico, era sgombro e nessuno scivolava. Ora nessuno pulisce niente. Lo spazio pubblico è tutto ciò che rimane dopo che si è pensato a noi stessi».

Quella della Biennale sarà una mostra-ricerca. Come la interpreta?
«Ho chiesto di avere più tempo del solito per allestirla. Sarà divisa in tre parti. All’Arsenale rifletteremo sullo stato dell’architettura in Italia. Al Padiglione italiano cercheremo di raccontare la storia universale degli elementi architettonici. E lo stesso accadrà nei padiglioni nazionali. Chiederemo che ogni paese si confronti con l’idea di modernità, se è stata accettata o rifiutata. E verificheremo quanto di nazionale e quanto di globale vive in ogni tradizione».

Come convivono in lei i tanti mestieri che ha svolto, ai quali ora si aggiunge quello di curatore?
«L’influenza di quelle esperienze è grande. Ma quella che le contiene tutte è forse il giornalismo, basato su un livello di curiosità che guida la ricerca negli altri campi. Sono un sociologo amatoriale. Uno storico amatoriale. Forse solo la scrittura è per me professionale».

Ma fra lo sceneggiatore e l’architetto ci sono poche analogie. O no?
«Sbaglia. Entrambi lavorano sulla connessione di episodi. Creano momenti di suspense e momenti rilassati».

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