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Italia Nostra Emilia Romagna
Come a L'Aquila? No, peggio
21 Dicembre 2012
In combutta con gli organi di tutela, la nuova legge regionale sulla ricostruzione in Emilia, rischia di completare l’opera del terremoto, distruggendo il tessuto dei centri storici. 21 dicembre 2012 (m.p.g.)


Se all’Aquila un mix di insipienza e prepotenza ha pregiudicato la rinascita del meraviglioso centro storico abruzzese, la recentissima legge elaborata dalla Regione Emilia Romagna si propone di fare molto peggio e in nome di uno pseudo efficientismo, del risparmio energetico, della sicurezza consentono, dietro la semplice dichiarazione di un tecnico, di demolire tutti gli edifici storici danneggiati, aggirando le disposizioni di tutela previste dalla pianificazione comunale .

Se all’Aquila non sono stati in grado di concludere nulla, hanno procurato guai solo in quel centro storico: in Emilia Romagna propongono di estendere a tutti i centri e nuclei storici terremotati le nuove norme, degne del piccone demolitore.
Per ora esse riguardano i comuni colpiti dal sisma ma presto, siamo facili profeti, saranno estese a tutti i centri storici della Regione.
Questo obbrobrio cancella d’un colpo le politiche di conservazione dei tessuti edilizi storici attuate attraverso il restauro, nate e praticate in questa regione, che hanno costituito un modello imitato in tutta Italia e che ha fatto scuola in tutti i Paesi europei, facendo sì che i principi della tutela fossero il cardine delle politiche riguardanti le città storiche.

Scompare, definitivamente cancellata, la nozione stessa di centro storico, costituito dall’intero tessuto degli edifici che il tempo ha stratificato nella parte antica della città, creando un unicum fatto di edifici, monumenti, palazzi, spazi pubblici, piazze, del quale a malapena si vogliono salvare solo i pochi edifici vincolati ai sensi del Codice dei BBCC, ritornando ad una concezione superata da decenni, secondo la quale sono i soli monumenti ad avere il diritto ad essere conservati.

Anzi neppure gli edifici monumentali possono dirsi salvi e per essere sollevate dal dovere del restauro e del ripristino le soprintendenze hanno bisogno di una norma regionale che liberi da tale regola gli edifici danneggiati soggetti alla loro tutela. Una perversa alleanza contro i patrimoni urbani storici. E proprio negli ambienti della direzione regionale per i beni culturali è stato lanciato il perverso slogan generalizzato del “dov’era, ma non com’era”.

Che razza di idea è mai questa, se l 'obiettivo è il restauro? E le soprintendenze solo di restauro debbono occuparsi. Il fatto è che la metodologia del restauro, che si è consolidata soprattutto in Italia ove è ampiamente utilizzata con criteri, materiali e tecnologie derivati dalla tradizione, che ormai hanno raggiunto applicazioni all'avanguardia grazie a maggiori garanzie, prove e metodi di calcolo ottenuti con tecnologie innovative, non viene sufficientemente valorizzata nell’opinione corrente e alcune Università, non esenti dalla civetteria delle innovazioni, non ne riconoscono il valore scientifico.

Il perché è assai semplice. La posta in gioco è altissima: oggi chi paga non vuole impegnarsi con il restauro, preferisce assemblare elementi garantiti, evitare responsabilità e calcoli puntuali, mentre molti progettisti, rivendicando una loro originalità espressiva, vogliono lasciare la loro impronta nei tessuti storici.
Allora il "non com'era" non diventa la mediazione fra i supposti “estremisti della conservazione” e il piccone demolitore, ma una strada maestra per far prevalere con prepotenza proprio il piccone, sposando così la povertà culturale e professionale con la cancellazione del patrimonio storico.

Tutto ciò è dimostrato dalla legge regionale appena approvata sulla ricostruzione, con l'ipocrisia di enunciati che predicano la tutela mentre le norme di fatto aprono ogni porta alla demolizione.
Il Piano della ricostruzione, infatti, tratta espressamente trasformazioni e incentivi urbanistici e le modifiche alla pianificazione vigente. Meglio sarebbe, in comuni normalmente dotati di buoni Piani, accelerarne le procedure. I Piani di ricostruzione sono, nella storia dell’urbanistica italiana, uno strumento che dal dopoguerra all’Aquila ha consentito i peggiori interventi.

La ricostruzione diviene allora occasione di sviluppo, come affermano impudentemente politici di ogni colore fin dai tempi dell’Irpinia, e si sostanzia in premi di volume, variazione dello stesso tessuto urbano storico, delocalizzazioni, demolizioni, specie per fare posto a nuove infrastrutture, a spese delle misere risorse messe a disposizione per ridare ai cittadini la loro identità sconvolta. Con la benedizione delle soprintendenze.

L’impiego di tecnologie e risorse umane per una grande opera di restauro sarebbe invece un’opportunità di riqualificazione non solo per il settore edlizio, ma per l’immagine produttiva nazionale e una risposta concreta alla necessità di conservare la propria identità delle comunità colpite.
In questo momento di crisi, riversare denaro destinato al recupero e alla ricostruzione per “delocalizzare”, anziché riparare, abitazioni e attività produttive rende più costoso e meno fattibile il ritorno alla normalità e solleva dubbi sulla destinazione delle risorse pubbliche.

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