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Tiziana Terranova
Università. L'unità di misura per eccellenza
6 Novembre 2012
Articoli del 2012
Come si tenta l'impossibile, cioè valutare le qualità con misure quantitative, in Italia e in Gran Bretagna. il manifesto, 6 novembre 2012

Come si tenta l'impossibile, cioè valutare le qualità con misure quantitative, in Italia e in Gran Bretagna. il manifesto, 6 novembre 2012


Le riforme della formazione hanno introdotto criteri economici nella valutazione della ricerca e della docenza. Un confronto tra l'esperienza inglese e quella italiana


Imperversa in Italia il dibattito sulla valutazione, e più specificamente il dibattito sulla valutazione del sistema universitario che si va definendo in vista delle prossime scadenze di abilitazione e concorsuali. È vero che la valutazione non è esattamente qualcosa di nuovo e dirompente per l'università italiana. È da molti anni ormai che esistono negli atenei italiani nuclei di valutazione che già determinano l'allocazione di parte del fondo di finanziamento ordinario (lo stesso che ha subito tagli drastici negli ultimi dieci anni).
Ma la valutazione è indubbiamente destinata ad intensificarsi. Una delle novità è che la nuova agenzia, l'Anvur, ha avviato il processo di selezione e classificazione delle riviste accademiche secondo tre fasce che poi determinano il valore da dare ad ogni pubblicazione sottoposta dai docenti al sito Cineca. Queste classificazioni hanno provocato grande scandalo per l'alto numero di riviste non propriamente scientifiche incluse (si pensi al lavoro del sito roars.it nell'evidenziare le scelte a dir poco controverse dell'Anvur in questo senso). Inoltre ha prodotto numerosi (e spesso confusi e contraddittori) documenti in cui vengono specificati i criteri per la formazione delle commissioni e di abilitazione a ciascuna delle tre fasce docenti.
In questa discussione manca un'attenzione critica al fatto che la valutazione del sistema universitario è ormai una componente strutturale (in quanto attiva da più di ventanni) in significativi settori dell'alta formazione globale. In particolare, è possibile rilevare che l'iniziativa in questo campo è stata sicuramente quella dell'Inghilterra - nazione in cui a partire dal 1991, successivi esercizi di valutazione hanno completamente rifondato il funzionamento stesso dell'università e i suoi fini. Manca cioè una discussione di come in un contesto di concorrenza globale dell'alta formazione, la valutazione abbia funzionato come strumento di ristrutturazione dell'università. Si tratta cioè di fare i conti con i processi che in un volume di qualche anno fa si definiva la formazione di una università globale, all'incrocio tra processi di universitizzazione dell'impresa e di aziendalizzazione dell'università (AA.VV. Università globale: il nuovo mercato del sapere, manifestolibri). Da un lato cioè il prepotente emergere di una nuova generazione di imprese espressione di un capitalismo cognitivo, in cui il valore è prodotto a mezzo innovazione, e l'innovazione è generata con strategie di governo dell'impresa (e della sua vita) copiate dall'università (si pensi per esempio a Google, Apple, Facebook); e dall'altro la crescente pervasività di tecniche di governo dell'università prese a prestito dal mondo delle aziende private. L'università, cioè, è stata a livello globale in questi anni uno dei luoghi più esemplificativi del collasso della distinzione tra pubblico e privato in funzione della produzione di un mercato globale della ricerca e della formazione, governato dagli stati nazione, ma con ambizioni appunto transnazionali.
In nome del merito

Il processo di valutazione nelle univesità inglesi, dunque, è sicuramente a livello globale quello più esteso e strutturale. Esso opera continuamente nella vita delle università inglesi sotto forme diverse, ma sostanzialmente implica una produzione continua di una scia di documentazione che mira ad assicurare l'uniformazione a protocolli che definiscono tutti gli aspetti dell'insegnamento e della ricerca: ogni momento della vita universitaria (dalla frequenza degli studenti agli incontri tra relatori e «tesisti») è documentato e controllato. Un esteso sistema di controlli trasversali sottopone a esame esterno tutti gli aspetti della didattica (dai nuovi corsi ai risultati annuali dei singoli corsi di laurea, con imposizione di procedure di double marking, campionatura della produzione degli studenti). Ma soprattutto abbiamo i grandi esercizi periodici di valutazione della ricerca di dipartimenti e università che si abbattono sul sistema universitario inglese con cadenza quasi quinquennale. Questo complesso sistema valutativo (il «Research Assessment Exercise» che ora è diventato il «Research Excellence Framework») è stato introdotto in tempi di grandi investimenti nell'università pubblica e nella ricerca a cui ha corrisposto un boom del numero di studenti iscritti ai vari gradi della formazione universitaria (dalle lauree triennali ai dottorati di ricerca). A questo si aggiungono le aggressive attività di franchise e marketing delle università inglesi in Asia, un notevole incremento di studenti d'oltremare e la notevole espansione di corsi più o meno brevi rivolti a una forza lavoro che si suppone in «formazione continua». Si è trattato cioè di un sistema valutativo complesso cresciuto in tempi di «vacche grasse». In questo già si verifica l'inesorabile gap che separa l'emergere del sistema valutativo inglese da quello italiano, che invece si appresta alla valutazione in una situazione di sottofinanziamento emergenziale dettato dall'austerity.
La valutazione infatti implica dei criteri attraverso cui operare un'opera di differenziazione pervasiva in grado di produrre delle «classifiche» che mirano a determinare il valore del singolo individuo, del dipartimento, dell'ateneo e del sistema universitario nel suo complesso. Nella valitazione pervasiva all'inglese è incarnato un principio quasi borsistico di modulazione del valore che si realizza nel famoso sistema di ranking. Per chi creda che il fine ultimo di questo sistema sia rinforzare l'impatto del sistema universitario sul Pil (la sua capacità di creare moneta o monetizzare la richiesta di sapere e formazione), rispondiamo che non è proprio così. Nonostante gli indicatori economici sottolineano la centralità della produzione culturale all'economia inglese, questo settore continua a subire i tagli più drastici. I fini politici, cioè, continuano comunque a sovradeterminare il mero dato economico. Tuttavia non è un caso che la misura della valutazione della ricerca si sia inesorabilmente spostata verso i finanziamenti cheil singolo, il dipartimento o l'ateneo è capace di procurare all'istituzione. La valutazione inglese cioè valuta sempre più in maniera predominante la capacità degli atenei di autofinanziarsi.
Il ricatto del denaro
La valutazione implica dunque un processo continuo di controllo - che va dal micro al macro (dagli atti quotidiani e più semplici che vanno continuamente documentati ai grandi esercizi periodici di valutazione). I criteri non sono mai definitivi, ma in continuo mutamento. Una volta che il principio secondo cui il finanziamento è subordinato alla valutazione (e la valutazione al finanziamento) è introdotto, allora il criterio valutativo diventa non solo la misura delle risorse da allocare, ma anche la direzione dei percorsi di ricerca e insegnamento. Nella misura in cui per esempio nella valutazione sia individuale che istituzionale pesano sempre di più i finanziamenti dei progetti di ricerca, allora ecco che la ricerca si piega necessariamente alle parole d'ordine dei funding bodies, dei finanziatori della ricerca - gli enti di ricerca statali in grado di allocare fondi, le aziende private, l'Unione Europea, le fondazioni. Non si tratta ovviamente di un mero comando lineare che definisce in maniera preordinata i campi e gli scopi del sapere, ma di un processo molto più indeterminato, in cui agiscono molti attori, ma che indubbiamente fa pesare le esigenze di generare valore economico nel governo dell'alta formazione e della ricerca.
Il docente o aspirante tale, uomo o donna che sia, è così impegnato in un continuo processo di auto-valutazione che determina il suo rapporto con l'istituzione e con se stesso/a. Il suo valore non è solo rilevabile periodicamente attraverso gli esercizi di valutazione, ma continuamente dentro e fuori l'istituzione. È parte, infatti, di una network culture in cui in ogni momento è possibile misurare la propria popolarità: come va il mio libro nella classifica di amazon.com? Quanto volte secondo Google Scholar vengo citato? Quanti siti con il mio nome compaiono quando faccio una ricerca su di me con Google? Qual'è l'impact factor registrato da varie agenzie online delle riviste in cui ho pubblicato? Posso aumentare l'impatto della mia ricerca misurato appunto in termini di citazioni scrivendo un blog per esempio o anche creando un seguito su twitter attorno a nuove parole d'ordine in grado di catalizzare l'attenzione? Inoltre, l'imposizione recente da parte del governo inglese dell'open access, cioè della gratuità dell'accesso ai risultati di ricerche direttamente finanziate dal governo stesso, si annuncia avere importanti ripercussioni sull'editoria accademica con ricadute sull'accesso alla pubblicazione degli stessi ricercatori. Se le riviste accademiche per esempio non potranno più far pagare per i propri prodotti, come potranno realizzare un profitto? A questo proposito, l'editoria anglofona più avanzata comincia a pensare di fare pagare agli autori stessi la pubblicazione, introducendo anche un sistema di micropagamenti per citazioni (secondo un modello definito pay per sentence, pagamento ogni frase citata)
Di fronte a queste tendenze consolidate e ai risultati deludenti che hanno promosso in termini di dare vera efficacia e autonomia ai processi di formazione e ricerca è necessario pensare e parlare di alternativa. Per parlare di alternativa bisogna rendere espliciti cos'è che non ci piace di questo sistema laddove si manifesta in tutta la sua efficienza: esso produce in generale una forma di proletarianizzazione del lavoro di formazione e ricerca. L'università valutata è sostanzialmente una università etero-diretta e comandata. Non si tratta semplicemente di una perdita di reddito, ma di fondamentale controllo sulle forme di organizzazione degli obiettivi del lavoro formativo e di ricerca che sia capace di rispondere a quelle infinite sfide che le società contemporanea pongono al sapere.
In cerca di democrazia
Per parlare di alternativa a tutto ciò forse però è necessario anche chiedersi: che cosa è stato appropriato e riscritto dal potere della valutazione che già esisteva come potenza costitutiva prima? Sempre pensando all'Inghilterra, non si può fare a meno di considerare come la valutazioni investi inizialmente un sistema universitario che si espande sotto le richieste di sapere espresse per la prima volta in maniera sostanziale da soggetti esclusi dalla classica formazione universitaria di Oxford e Cambridge. Una università abitata da soggetti subalterni, neri, donne, gay e proletari, che negli anni Ottanta hanno condotto durissime battaglie «fisiche» e culturali contro il razzismo, il sessismo, il classismo e lo sfruttamento. Soggetti subalterni che nei dipartimenti dei politecnici avevano anche profondamente innovato i modi di produzione del sapere in una dinamica che livellava le differenze gerarchiche tra docenti e studenti, per esempio, in nome di una comune produzione di un sapere dinamico, non riproduttivo, volto a cogliere le esigenze di un sociale concepito a partire dalle sue istanze subalterne e conflittuali (si pensi all'esperienza esplosiva e dirompente degli Studi Culturali di Birmingham negli anni Settanta e Ottanta del Novecento). Per questo è vero quello che si dice quando si dice che la posta in gioco è la democratizzazione dell'università italiana al di là delle attuali forme di autogoverno. Contro la centralizzazione del bastone e della carota, si tratta dunque di allargare i soggetti della valutazione, rendendola imprenscindibile dall'invenzione di forme di democrazia della vita universitaria. Questo significa contrastare la valutazione-comando con un altro tipo di valutazione, che inneschi un processo autoriflessivo, dinamico, allargato che apre al sociale e alle sue istanze. Citando Christian Marazzi, l'alta formazione e ricerca appaiono come momenti fondamentali di quel processo di riconfigurazione dell'economia su un modello antropogenetico: un'economia cioè che sia in primo luogo produzione di un'umanità migliore, nella sua complessa relazione con la natura e con il non-umano. Pensiamo per esempio alle sfide lanciate dalla crisi economica e ambientale, dalle trasformazioni della vita affettiva e culturale che richiedono delle istitituzioni capaci di vero autogoverno orientato a fini diversi che quelli del profitto.
È vero che tutto questo è sostanzialmente incompatibile con le linee politiche prevalenti in periodi di austerity, esso implica cioè un cambiamento deciso di direzione che dev'essere quanto più ampio e condiviso. Ma questo non significa che non sia possibile cominciare a pensare e praticare processi di valutazione dal basso che abbiano per esempio come obiettivo il rinnovamento e l'apertura dei saperi a nuovi attori. L'idea di un'altra forma di valutazione, sostanziata da un altro sistema di valori, è da considerare per chi si oppone alla valutazione non sulla base della difesa del vecchio ma sulla base del proprio giudizio sul nuovo che altrove è già stato e i
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