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Michele Smargiassi
Sciopero dello shopping per salvare la domenica
10 Novembre 2012
Territorio del commercio
Ancora sulla sacralità della giornata di riposo per i lavoratori del commercio, ma stavolta la prospettiva è chiara, perché è quella della chiesa.

Ancora sulla sacralità della giornata di riposo per i lavoratori del commercio, ma stavolta la prospettiva è chiara, perché è quella della chiesa. La Repubblica 10 novembre 2012, postilla (f.b.)

IL SETTIMO giorno Dio si riposò. L’uomo invece andò a fare shopping. «Ma guardali. Al sabato dicono “oh finalmente domani mi riposo”, e poi eccoli lì al centro commerciale. Non capiscono che è un altro lavoro, il lavoro del consumatore? Non capiscono che ci stanno rubando la domenica?
Padova, parrocchia del Buon Pastore, quartiere Arcella, zona difficile. In canonica Rita, catechista con grinta, fotocopia i “moduli di boicottaggio” da far firmare ai parrocchiani, domenica prossima, all’uscita da messa. C’è scritto: «Mi impegno a non andare a fare la spesa di domenica, per non sostenere con i miei consumi l’apertura dei centri commerciali nei giorni festivi». Scusa Rita, e se mi manca il burro? «Bussa alla porta del vicino. Così magari ti fai anche un amico».

La sfida è partita. Un’intera diocesi, una delle più grandi d’Italia e forse la più solida, quella di Padova, la città del Santo, si mette in marcia contro il furto del giorno del Signore. Con la benedizione del vescovo Antonio Mattiazzo. E senza timore di usare quella parola così forte: boicottaggio. Sette mesi di campagna all’insegna delle «tre R: Relazioni, Riposo, Risorto», tutte le parrocchie e le associazioni mobilitate.

Non è più la solita predica. Fin dal Vaticano Secondo la protesta della Chiesa contro il lavoro domenicale non necessario è severa, non c’è Papa che non l’abbia ribadita dal più alto soglio, ma questa volta si passa dalle parole anche illustri ai fatti, minuti e probabilmente efficaci. La raccolta di impegni individuali firmati di boicottaggio è solo il primo. Poi le parrocchie compileranno “liste bianche” di negozi che rispettano la festa, le affiggeranno sui sagrati, le pubblicheranno nei bollettini, le contrassegneranno con adesivi da esporre in vetrina invitando i fedeli a fare spesa solo lì. Poi le cattedrali della fede beffeggeranno le cattedrali dei consumo esponendo sulla facciata lo striscione polemico: “Questa chiesa è aperta anche alla domenica”. Poi i giornali diocesani, con un certo sacrificio economico, rifiuteranno inserzioni pubblicitarie di negozi che non rispettano il riposo domenicale. «La cosa più difficile sarà convincere il rettore del santuario di Sant’Antonio a chiudere il negozio di souvenir alla domenica, ma se non diamo noi il buon esempio... », sorride padre Adriano Sella sulla soglia della cappellina di san Giuseppe Lavoratore, in piena zona industriale.

Ex missionario in Brasile, tornato in Veneto perché «ormai la terra di missione è qui», direttore della “Commissione diocesana per i nuovo stili di vita”, padre Adriano è l’uomo che ha ideato e coordina la mite ma decisa offensiva. «Non è una crociata contro i supermercati. È la riscoperta del valore del tempo del riposo, della famiglia, delle relazioni umane. La domenica non è l’ultimo giorno del weekend, e non è neanche soltanto il giorno del Signore, anche noi, Chiesa, dobbiamo evitare di riempirla di riti e cerimonie. Il giorno senza lavoro è una necessità primordiale, antropologica dell’uomo, non solo un comandamento del credente. Il riposo infrasettimanale non compensa nulla, perché ciascuno ha un giorno diverso e non ci si incontra più: mentre la domenica è della comunità, è di tutti ed è assieme», spiega mentre guida sulle strade della provincia a distribuire il vedemecum di 24 pagine con le istruzioni dettagliate per la campagna e a incoraggiare le sue truppe disarmate.

Nell’anno 304 ad Abitène, oggi in Tunisia, 304 cristiani affrontarono il martirio al grido di «senza domenica non possiamo vivere!». Ai boicottatori dello shopping, padre Adriano chiede molto meno sacrificio ma più fantasia. E la trova. A Due Carrare Caterina, responsabile del patronato di San Giorgio, ha coinvolto l’amica professoressa Anna Chiara, e domenica si porta tutto il paese a passeggio tra le sconosciute memorie storiche della zona, l’abbazia di Santo Stefano, il ponte romano, la villa veneziana: «La gente scappa nei centri commerciali perché ha paura del vuoto della domenica. Bisogna offrire alternative ». A Cazzago Gianni Simonato, tecnico informatico, sta ridipingendo il vecchio circolo Acli: «Offriremo il caffè dopo la messa, per continuare a stare insieme », come si fa in certe chiese anglicane. In sala biliardi un monitor sempre acceso pubblicizza il boicottaggio. Qui la minaccia è seria, si chiama Veneto City, progetto di megacentro commerciale in piena campagna, «già adesso la domenica il paese si svuota, vanno tutti a Padova o a Mestre a fare spese, figuriamoci dopo». A Maserà, nella sua curiosa chiesa-pagoda, don Francesco Fabris è preoccupato: «Vengono le mamme commesse di negozio a chiedermi aiuto, “fate qualcosa voi, il sindacato ha già firmato l’accordo per il lavoro domenicale”, cosa posso fare per queste persone?». Il 4 marzo scorso a Padova le commesse sfilarono per strada con il codice a barre appuntato sui grembiuli per dire “la domenica non ha prezzo”. Bene, don Francesco farà qualcosa: domenica 18 metterà una tenda davanti alla chiesa per pubblicizzare il boicottaggio. Antonio fa il cassiere in un ipermercato di un grosso centro della provincia, «tre domeniche al mese obbligatorie, sto per sposarmi, penso ai miei figli: potrò stare con loro solo un giorno al mese?», allora ha organizzato un boicottaggio privato e controllato: ha imposto a parenti e amici di non farsi vedere
da lui in negozio alla domenica, «qualcuno poi passa lo stesso, arrossisce e mi chiede scusa... «.

Battaglia difficile, Rita la catechista lo sa. «Vanno a fare shopping perché così anche la domenica possono evitare di parlare con altri esseri umani: parlano solo con le scatolette di pomodoro». Don Vlastio, il suo parroco, cerca di contenerla un po’: «Non dobbiamo colpevolizzare nessuno... ». Ma a sorpresa, la campagna che sta per partire conta già un convertito eccellente, nientemeno che il comandante del campo avverso, il presidente dell’Ascom di Padova Fernando Zilio, lui che per un anno ha bisticciato sui giornali locali con il vescovo proprio per le aperture domenicali, ma che si è ricreduto quando, con le liberalizzazioni del governo Monti, ha visto la potenza di fuoco delle grandi catene dell’“aperto ogni domenica!” abbattersi disastrosamente sul fatturato dei suoi “piccoli”, i negozi a conduzione familiare: «Aveva ragione monsignor Mattiazzo, ha visto più avanti di me. Qualche negozio nei centri storici, per il turismo, può anche aprire alla domenica, ma questo sistema non è giusto, e forse non rende neppure». Padre Adriano si attende molti altri folgorati sulla via dello shopping.

postilla
Se non altro stavolta le cose sono chiarissime: la contrarietà all’apertura domenicale dei negozi arriva dall’unica direzione in qualche modo autorizzata, ovvero quella del sacro. E non, per esempio, da quella parecchio fuorviante della tutela dei diritti dei lavoratori, che spesso accampa purtroppo argomentazioni troppo simili, perdendo di vista la luna per guardare troppo attentamente il dito. Ha senso, nel ventunesimo secolo, imporre per legge a tutti quanti di starsene per una giornata a contemplare l’infinito o quel che si preferisce? Ha senso, imporre per legge che una giornata, la stessa giornata per tutti intendo, sia interamente sottratta allo spazio-tempo della contemporaneità, obbligando giovani, vecchi, lavoratori e pensionati, studenti, e chissà quante altre categorie sociologiche si possono evocare, al momentino di riflessione obbligatorio? No, che non ha senso, perché come ci insegnerebbe lo storico Jacques Le Goff esiste un tempo del sacro e un tempo del terreno, che con tanta fatica abbiamo cominciato goffamente a distinguere quando nella teocrazia medievale qualche inventore cominciò a pasticciare seriamente con gli orologi. Per scoprire che l’eternità poteva essere fatta a fettine precise, magari pure capita meglio, lasciando anche all’adorazione più spazio specifico, e all’uomo momenti adeguatamente ritagliati per pensare alle proprie terrene faccende. Il primo simbolo delle città, svettante sull’aria libera che vi si iniziava a respirare, furono le torri dell’orologio. Il fatto che poi quegli orologi fossero montati sui campanili, vicino alle campane che scandivano le ore, anche quelle dedicate al sacro, è solo un caso. Non confondiamo le cose, per favore, anche con le migliori intenzioni progressiste (f.b.)

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