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Roberto Esposito
Perché la libertà dipende dai diritti
23 Novembre 2012
Libri segnalati
Puntuale e sistematica recensione, efficace ed esaustiva anche se leggermente ingessata, a “Il diritto di avere diritti” di Stefano Rodotà.

Puntuale e sistematica recensione, efficace ed esaustiva anche se leggermente ingessata, a “Il diritto di avere diritti” di Stefano Rodotà.

La Repubblica, 23 novembre 2012 (f.b.)
Che succede al diritto in un mondo senza terra? Orfano di territori circoscritti in cui affondare le proprie radici e di tutela da parte di sovranità nazionali capaci di imporlo? Cosa ne è di esso, quando si interrompono le grandi narrazioni che per secoli ne hanno costituito lo sfondo? Sono queste le domande cruciali che Stefano Rodotà pone in un libro – Il diritto di avere diritti, appena edito da Laterza – in cui sembrano convergere, componendosi in un affresco di rara suggestione, le grandi questioni che egli ha sollevato in questi anni con coerenza e passione. Prima ancora che un vasto ripensamento del diritto nell’età della globalizzazione, sono in gioco i rapporti tra spazio e tempo, vita e tecnica, potere ed esistenza in una trama discorsiva che intreccia continuità e discontinuità senza assolutizzare né l’una né l’altra. Ciò che conferisce all’analisi forza e respiro è la consapevolezza che anche le più clamorose rotture sono percepibili solo in rapporto ai tempi lunghi entro cui si ritagliano. L’autore sa bene che passato e presente, origine e contemporaneità, si illuminano a vicenda e che anzi è proprio la loro tensione a rendere visibile l’effettivo movimento delle cose.

Rispetto alla radicale dislocazione che rimette in gioco l’intero ius publicum europaeum, in cui quella che è stata chiamata (da Bobbio) “età dei diritti” pare perdere terreno di fronte alle sfide della tecnica e dell’economia, Rodotà rifiuta entrambe le vie più facili – sia quella, regressiva, dell’arroccamento nei vecchi confini sovrani, sia quella, utopica, di un’immersione totale nel mare indistinto della rete. Certo la metafora della “navigazione” negli spazi infiniti di Internet,
a dispetto delle guardie confinarie dei vecchi Leviatani, è suggestiva. Ma le parole con cui, qualche anno fa, John Perry Barlow apriva la Dichiarazione d’indipendenza del cyberspazio testimoniano come una straordinaria promessa possa rovesciarsi in una sottile minaccia: «Governi del mondo industriale, stanchi giganti di sangue e di acciaio, io vengo dal cyberspazio, la nuova dimora della mente. In nome del futuro, invito voi, che venite dal passato, a lasciarci in pace. Non siete benvenuti tra noi.

Non avete sovranità suoi luoghi dove c’incontriamo». Contro gli occhiuti fantasmi del passato e le fughe in avanti in un futuro per nulla rassicurante, Rodotà coniuga al meglio attenzione al nuovo e consapevolezza delle sue ambivalenze, realismo e speranza. La sua tesi centrale è che solo l’elaborazione di un rinnovato diritto possa riempire le faglie aperte dalle scosse telluriche in corso, ricostituendo quell’equilibrio tra politica, economia e tecnica che le dinamiche globali hanno forzato fino a sgretolarlo. Alle fine delle grandi narrazioni, l’unica che appare resistere – capace di rassicurare gli individui e mobilitare i popoli – è soltanto il progetto di estendere ad ogni essere umano i diritti faticosamente conquistati in una lotta che ha attraversato l’intera storia moderna. E ciò nonostante i limiti, le contraddizioni, le disillusioni che di volta in volta hanno dato una sensazione di insufficienza, di arretramento e perfino di tradimento delle conquiste precedenti. Il ragionamento di Rodotà si sviluppa per passaggi consecutivi che, nel momento stesso in cui profilano con nettezza la sua posizione, tengono però già conto, incorporandole, delle possibili obiezioni.

Certo, il diritto non è in grado di coprire l’intera gamma dei nostri bisogni – e del resto una giuridicizzazione integrale dell’esistenza assomiglierebbe più a una gabbia che a un libero spazio di convivenza. Eppure solo esso è in grado di contenere la pressione sempre più invadente dell’economia e della tecnica. La prima attraverso uno scioglimento del mercato da qualsiasi vincolo sociale che rischia di spezzare il nesso moderno tra dignità e lavoro. La seconda attraverso un controllo pervasivo della vita da parte di apparati solo apparentemente neutrali, in realtà custoditi in poche mani, come accade per Facebook e Google. Che sarebbe di un mondo affidato a una lex mercato ria senza limiti o di una vita interamente esposta all’occhio di invisibili terminali elettronici che ne spiano ogni minimo movimento?

Naturalmente, perché il diritto possa esercitare una funzione non solo legislativa, ma compiutamente giurisprudenziale, deve passare dal piano di una legge imposta dall’alto a quello, immanente, di una norma che risponda ai bisogni materiali delle persone – proteggendo i loro diritti civili, politici, sociali e adesso anche informatici. Ma perché ciò assuma senso è necessario strappare la vecchia maschera della persona giuridica, incarnandola nel corpo dell’individuo vivente. Quanto ciò sia complicato è ben noto a chi conosce il ruolo discriminante, ed anche escludente, che il dispositivo romano della persona ha esercitato per secoli nei confronti di coloro che sono stati dichiarati di volta in volta nonpersone, persone parziali, semipersone o anche anti-persone. Ma l’uso della categoria assunto dalle Costituzioni e dalle Dichiarazioni postbelliche sembra voler aprire una nuova storia, che ha portato alla Carta dei diritti fondamentali proclamata a Nizza nel 2000 ed entrata in vigore col Trattato di Lisbona del 2009. A questo insieme di processi sociali, giuridici, semantici – che pongono al centro del diritto il corpo di donne e uomini liberi ormai anche dal vincolo di cittadinanza, perché cittadini del mondo – Rodotà dà il nome di costituzionalizzazione, collocandolo al cuore del libro.

Proprio su di essa io credo si possa, e si debba, lavorare, spingendola sempre più avanti nella direzione di una connessione profonda tra diritto e vita. Che, naturalmente, non può fare a meno della politica, come ben riconosce l’autore. A tale proposito avanzerei due ulteriori osservazioni. La prima riguarda appunto il rapporto tra diritto e politica. Rodotà vede nel primo soprattutto una salvaguardia per la seconda, il cerchio di garanzia all’interno del quale il politico può svilupparsi legittimamente. Bene. Ma se quella sui diritti, come egli scrive, è una lotta – lotta per e sui diritti, il diritto non è a sua volta interno alla dinamica politica? Voglio dire che la stessa opzione per l’universalismo dei diritti passa necessariamente per un conflitto con coloro che lo negano – e dunque non può non assumere un profilo di per sé politico. Il “politico”, insomma, non è un ambito come gli altri, che il diritto possa limitarsi a garantire dall’esterno, ma è il grado di intensità della lotta che li percorre tutti, compreso quello del diritto.

La seconda osservazione riguarda l’Unione Europea, cui Rodotà dedica la massima attenzione. Egli scrive che se l’Europa saprà pienamente riconoscersi nella Carta «troverà pure una via d’uscita da una sua minorità, dal suo continuare ad essere “nano politico”». Ho il timore che, per ridare un profilo politico all’Europa, ciò possa non bastare – se insieme non si mette in moto un processo costituente che restituisca, almeno nella fase di avvio, piena sovranità politica ai popoli europei in una forma non del tutto coincidente con una pura giuridicizzazione. C’è sempre un momento iniziale in cui il politico oltrepassa il giuridico o almeno lo forza in una direzione imprevista. Ovviamente domande del genere, che rivolgo all’autore, nascono dall’impianto stesso di una ricerca che per ricchezza, competenza e intelligenza, ha pochi uguali nel dibattuto giuridico contemporaneo.

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