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Barbara Spinelli
Acqua e paesaggi, buone azioni per il bene comune
6 Novembre 2012
Libri segnalati
Il nuovo saggio di Salvatore Settis propone un'etica condivisa per proteggere gli interessi collettivi e riscoprire il valore della cittadinanza.
Il nuovo saggio di Salvatore Settis propone un'etica condivisa per proteggere gli interessi collettivi e riscoprire il valore della cittadinanza.

La Repubblica, 6 novembre 2012 (f.b.)

Fanno impressione certe somiglianze fra la crisi economica in cui siamo immersi dal 2007-2008 e la guerra al terrorismo iniziata nel 2001. Ambedue posseggono una perennità immota, refrattaria all´autocritica. La guerra al terrore ha imparato poco da errori e sconfitte, e resta permanente come Bush la voleva: la forma s´è fatta più infida, ma la guerra dei droni dilatata da Obama non la limita nel tempo. Così la crisi: uno dopo l´altro i rimedi falliscono, ma il vizio d´origine rimane, e dunque è pensata anch´essa come permanente. Il vizio è la sovranità che i mercati continuano a esercitare senza controlli sulle società, sugli Stati, sul popolo che in democrazia è sovrano. Nulla sembra mutato rispetto ai tempi in cui Keynes denunciava – poco dopo l´ascesa di Hitler, nel giugno 1933 – l´«imbecille linguaggio finanziario» che anteponeva al benessere dei cittadini i «risultati finanziari», e trasformava l´esistenza umana nell´«incubo di un contabile».

Si può uscire da un incubo imbecille? È la domanda che si pone Salvatore Settis nel suo ultimo libro (Azione popolare – Cittadini per il bene comune, Einaudi). Il peggio non sembra finire mai, ma «con l´acqua alla gola in un mondo senz´altre regole che il profitto, stiamo cercando per ogni dove vie d´uscita, principi di moralità, ragioni di speranza». Nel saggio citato dall´autore, Keynes dice che la «città delle meraviglie» bramata dai cittadini non è un´utopia impossibile, né maligna. Se non si realizza, è perché non frutta subito. Fruttano più gli slum, per le imprese private, mentre la città delle meraviglie, questa folle stravaganza, «potrebbe ipotecare il futuro». Non è vero che non possiamo permettercela a causa del debito. Questo ci dice Settis: in realtà i conti non tornano con le ricette che creano disuguaglianze e bassifondi. L´imbecillità contabile è tutta qui: è nella rinuncia dell´Italia a se stessa, alle alternative di cui potrebbe essere capace.

Per le nozioni che approfondisce – il bene comune, la proprietà pubblica, l´ecologia – il libro di Settis è vademecum indispensabile. Disegna su un foglio la città delle meraviglie. Il ragionamento ruota attorno a un´idea forte (un pensiero dominante, lo chiamava Leopardi): il principio del bene comune, che protegga da saccheggi i beni comuni usati dai cittadini. Il diritto romano distingueva fra cose pubbliche extra commercium, rigorosamente sottratte al mercato, e res in commercio: quel diritto ci ha formati, è la nostra forza.

La corsa alle privatizzazioni di beni e servizi pubblici, le cartolarizzazioni avviate da Tremonti con la complicità della sinistra (l´idea era di ripianare il debito cartolarizzando e poi dismettendo – dunque in prospettiva svendendo a privati – non solo edifici pubblici ma paesaggi e patrimoni artistici, immettendoli come garanzie in fondi immobiliari privati): sono tutte iniziative che violano tradizioni antiche e la Costituzione. Che spezzano il nesso fra sovranità popolare, diritti che dalla sovranità discendono, e proprietà pubblica di interesse collettivo (o demanio inalienabile). La cartolarizzazione venne interrotta: costava un´enormità. Ma è stata trasferita ai Comuni, obbligati per bisogno di soldi a operazioni che per forza preludono a dismissioni. Dismissioni incostituzionali, perché i beni pubblici sono dei cittadini: lo Stato siamo noi, diceva Calamandrei, e anche i suoi beni.

Per uscire dalla grandiosa pestilenza urge un altro modo di far politica, globale e locale. Il che vuol dire: un altro modo di possedere, come scriveva nel 1853 Carlo Cattaneo. Un modo che preservi i beni appartenenti ai cittadini. Urge un´etica «ricalibrata» sulla terra in pericolo: una situation ethics, la chiamò negli anni ´60 Joseph Fletcher, pioniere della bioetica, che ridefinisca i ruoli dello Stato, della sovranità popolare, del mercato, a seconda delle circostanze. Urge infine una volontà di resistenza che oggi manca: o perché interiorizziamo il culto religioso dei mercati, o perché in partenza rinunciamo.

Il pericolo della rinuncia è il filo conduttore del libro, l´incubo di Settis. L´autore ricorda un articolo, straordinario, scritto da Corrado Alvaro nel ´44: lo sguardo è cupo, sulle nostre capacità di riapprendere una moralità pubblica. Perché rinunziamo? Alla domanda, tormentosa, Alvaro risponde che accanto a un popolo resistente, colmo di meriti, permane un ceto politico in cui trionfano «mezza cultura, conformismo, feticismo, mancanza di senso critico»; in cui «il Nord si è presa la parte del gran corruttore, il Sud quella del complice e corrotto»: «una classe dirigente guasta per sempre». Alvaro chiamò inaderenza il disinteresse politico per i problemi, i bisogni, le verità del Paese. È la conferma che la Costituzione fu figlia delle speranze resistenziali, ma anche dei neri timori di veggenti come Alvaro o Calamandrei.

Arginare un mercato divinizzato che malgrado le disfatte continua a esser sorretto da teologie anti-statali è possibile, scrive Settis: con azioni pubbliche di resistenza, come nel referendum sull´acqua. Il manifesto già l´abbiamo: è la Costituzione, quest´Incompiuta sempre violata. È l´arma che abbiamo contro la veduta corta del berlusconismo, e l´assillo contabile del governo tecnico. Pur non nominando le generazioni future, ne ha cura. Dice questo l´articolo 9, che obbliga la Repubblica a tutelare, non svendere, paesaggi e patrimoni artistici. O gli articoli 41-42: tanto avversati, perché costringono le libere imprese a non agire «in contrasto con l´utilità sociale», e proteggono la proprietà privata ma ne assicurano la «funzione sociale». Il bene comune è custodito per i posteri.

La Costituzione come baluardo: ecco la zattera di salvataggio, secondo l´autore. Ecco come potremo opporci al presente corto che ci ossessiona, dimentico del passato e cinicamente indifferente alle future generazioni. Ecco come potremo coniugare l´amore del prossimo, l´amore del lontano di Nietzsche, l´amore di Antigone per leggi non contingenti. I lontani che abitano il futuro sono già qui, dice Settis – sono i nostri cittadini necessari, «presenti da subito nell´orizzonte della moralità e del diritto». Già sappiamo le loro domande.
Se non impariamo la «lungimiranza bifronte» (verso passato e futuro) davvero avremo rinunziato. Tornando a Keynes: sarà tale l´incubo del contabile, che distruggeremo «le campagne perché gli splendori naturali non hanno valore economico. Siamo capaci di spegnere il sole e le stelle, perché non danno dividendi».

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